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 2014  settembre 29 Lunedì calendario

«DITECI SE SIAMO DEI MOSTRI»

Occhi. Sono dunque questi occhi, scuri, lucidi, che hanno guardato la donna prima di aggredirla. Mani. Sono queste le dita sottili, curate, che si sono strette intorno al collo di una ragazza fino a toglierle il respiro e la vita.
Ecco cosa ti colpisce prima di tutto: davanti a te c’è un uomo come tanti. Come te. Non un essere con il volto coperto da una maschera, come nei film; una bestia cui il male ha stravolto il viso rendendolo irriconoscibile. Diverso.
“Io sono un mostro?”, ti chiedono guardandoti in faccia e lasciandoti muto. E tu non hai risposta. Siamo nel carcere di Bollate, struttura modello – a parte le foto del Duce in un gabbiotto della polizia carceraria – alle porte di Milano. Una percentuale di recidiva più bassa degli altri istituti, all’ingresso bacheche di vetro con collane e braccialetti opera dei detenuti. Sui muri disegni di boschi, fiori, come quelli che si intravvedono dalla finestra, irraggiungibili, sui monti della Brianza. E due murales, con una parola che basta per darti una fitta di dolore o di speranza che qui sono quasi la stessa cosa: “libertas”. Perché non bastano i colori, la pulizia, c’è un confine che senti dentro anche se la porta con le sbarre è spesso aperta.
VII reparto: isolati dal mondo
Intorno al tavolo con te ci sono Matteo, Alberto, Giulio, Giancarlo, Franco, Ivan, Gabriele. Erano artigiani, manager, maître, operai, ma oggi sono soprattutto carcerati con anni, a volte decine, da scontare per delitti che arrivano all’omicidio. Alcuni dei loro volti li avevi già visti sulle prime pagine dei giornali, sbiancati dai flash. E ora te li ritrovi davanti in carne e ossa.
Siamo nel VII reparto, l’ultimo, quello in fondo al carcere, diviso da tutti gli altri. Sì, perché qui sono detenuti i condannati per reati sessuali: violenze, molestie, pedofilia e omicidi. Trecento persone circa, su un totale di 1.300 della struttura diretta da Massimo Parisi.
“Grazie di essere venuto”, ti dice uno di loro. Addosso ti senti gli occhi di tutti. Con un velo di diffidenza all’inizio, ma soprattutto con un carico di curiosità, attesa e gratitudine. Perché qualcuno ha accettato di superare il cancello del VII reparto, di ascoltare quello che dicono. Perché loro sono gli “intoccabili”, per la gente che sta fuori e per la legge non scritta del carcere, che vuole infame chi ha violentato una donna e non chi, magari mettendo una bomba, di donne e bambini ne ha uccisi decine. Perché anche in carcere hai bisogno di sentirti un poco giustiziere, di pensare che i veri criminali sono altri.
O, magari, soprattutto perché le azioni di queste persone toccano quella forza misteriosa e violenta che ci fa tremare tutti: il sesso.
I sette uomini intorno al tavolo da mesi hanno scelto di affrontare un percorso di recupero insieme con una delle psicanaliste più note e capaci, Marina Valcarenghi (collaboratrice del Fatto). E oggi con il cronista hanno deciso di raccontare la loro vita. Senza reticenze. Perfino di provare a ricostruire, spiegare ai lettori – e a se stessi – che cosa è successo nei momenti terribili. È la violenza raccontata da chi l’ha commessa.
Ma per arrivare fino al fondo del baratro bisogna ripercorrere tutto il viaggio. “Lo so, ho sbagliato, non cerco giustificazioni”, esordisce Giancarlo e i suoi compagni, quasi senza accorgersene, fanno tutti cenno di sì con la testa. Giancarlo è il primo a parlare. Ha quasi settant’anni e sulle spalle una condanna pesante, quasi interamente scontata. Aveva una vita più che normale: un lavoro da manager affermato, una famiglia, dei figli. Poi, apparentemente senza preavviso, quel folle salto, le manette, la sua vita sulla cronaca nera dei giornali: “Mi sono innamorato di una minorenne”, racconta. Come  è potuto succedere? “Voglia di primavera”, si era lasciato scappare nei primi incontri. “Ho commesso una cosa grave. È stato giusto pagare. Me sta ben che son stato un mona”, si mette a parlare nel suo dialetto quando lo prende la foga. Non si fa nessuno sconto. Eppure capisci che per lui, per tutti qui dentro, è stato un lavoro doloroso affrontare le proprie responsabilità: “Il carcere ti fa riflettere per il solo fatto che ci stai dentro. Tolti gli impegni quotidiani, qui hai abbondanza soltanto di una cosa: il tempo. Allora pensi, ripensi migliaia di volte a quello che è successo per capire chi sei, perché ti sei comportato così”. Non si può sfuggire dalle sbarre della cella, ma soprattutto al confronto con te stesso. Ma non è nella solitudine che ti rendi conto: “Non so come potremmo fare senza questi incontri con la psicanalista dove ognuno di noi ha accettato di mettersi a nudo. E senza gli altri detenuti. Dev’essere per questo che qui tutti, o quasi, chiedono di condividere la cella con qualcuno. Di non essere lasciati soli. Abbiamo bisogno di parlare, di raccontare. Di confrontare le esperienze e gli errori”, spiega Ivan e guarda i compagni, si scambiano un sorriso: “Io sentivo di essere in colpa, ma non capivo perché. Non sapevo davvero cosa mi aveva spinto, che cosa era successo dentro di me. E dovevo scoprirlo… sennò sarebbe stato tutto inutile, il carcere, la sofferenza”.
“Uscire consapevoli è l’unico modo per salvarsi. E ricominciare”, non ha dubbi Giancarlo. Anche se pare un compito enorme: capire, senza schiantare la propria vita, ma non cadendo nel rischio dell’indulgenza.
E rispondere in fondo a quella domanda: “Chi sono io?”. Tu ascolti e ti accorgi che per questi sette uomini il momento più difficile deve essere stato l’arresto. Le manette, il carcere, gli articoli sui giornali. Certo. Ma soprattutto la scoperta di essere capaci di compiere una violenza così terribile. È ancora Ivan a parlare, con la felpa, i bermuda, quel modo di fare irruente da ventenne che cerca di nascondere i pensieri più profondi: “Io sono responsabile”, esordisce, per spazzare il campo. Ma non riesce a rassegnarsi, non del tutto: “Non ho mai negato di essere stato là quel giorno con i miei amici, non ho fatto nulla per evitare che succedesse. Me lo rimprovererò sempre. Però mi dispiace essere considerato un mostro. Accetto di pagare per la mia colpa, ma non possono condannare tutta la mia vita. Non sono cattivo”, e si guarda intorno come per chiedere agli amici di testimoniare.
Tu saresti pronto a credergli fino in fondo. Finché un disagio, un profondo disorientamento ti prende ascoltandolo scendere nel baratro, raccontare quei momenti: “C’era una tipa, mi stava dietro. Allora l’ho detto alla mia ragazza e tutti, con i nostri amici si è deciso di punirla”. Mentre ascolti affiorano i ricordi, gli articoli sui giornali: le violenze, il tentativo – secondo l’accusa – addirittura di bruciare l’amica. Ivan è stato condannato. E tu non puoi fare a meno di pensare a lei, alla vittima. Di vedere in lei te stesso, le persone che ami. Allora ti pare di non riuscire più a mettere a fuoco l’immagine di Ivan, quasi si sdoppiasse. Come se i tuoi occhi non potessero accettare che si tratti della stessa persona: il ragazzo vitale che hai di fronte e il condannato per un delitto.
“Io non sono il mio reato”
Così ti vedi sfocare l’immagine di Matteo – l’unico che si professi totalmente innocente – quando racconta della disabile mentale che lui avrebbe convinto ad avere un rapporto sessuale. E poi Gabriele che è stato condannato per avere violentato una sua dipendente. Non riesci più a capire chi hai di fronte: il ragazzo con gli occhi azzurri e i modi franchi o il marito che violenta la ragazza che lavora per lui. Non ti pare possibile che siano la stessa persona. Soprattutto che siano uomini come gli altri. È la stessa domanda che sembra tormentare i condannati: “Parlare con la psicanalista, con gli amici ci aiuta a vedere il male dentro di noi. Ma anche il bene… perché c’è anche quello, nella stessa persona. Io non sono il mio reato!”, ripetono.
“Ero una persona come tante. Poi un giorno ho scoperto che mia moglie era malata. Allora la mia vita è cambiata. Ho cominciato ad avere altre storie, tante. Poi quel giorno…”, lascia la frase a metà Gabriele.
Attilio sfiora la sessantina. Aveva quasi quarant’anni più della ragazzina con cui ebbe dei rapporti. “Era consenziente”, esordisce, “Mi provocava. Anche i miei amici me l’hanno detto: il novanta per cento delle persone si sarebbero comportati come te”. Attilio si blocca. Non sai se perché si trova davanti un estraneo o per intima convinzione. Allora vedi affiorare parole e pensieri nati in cella.“Lei era d’accordo, ma io questa condanna me la merito. Perché a quella ragazza le ho messo un marchio addosso. A me chi mi conosce forse mi ha capito, ma lei per tutta la vita si porterà addosso la vergogna. Sì, in questi casi la vittima è quella che paga di più… tutti dicono, lo ha provocato e poi l’ha pure denunciato”. Attilio ti guarda come per vedere se può osare. Poi tenta: “Certo che ci cadono in tanti, anche dei politici...”, e nella stanza senti ridere. E d’improvviso ti accorgi che in queste celle sono sopravvissute l’amicizia, dei lampi di allegria subito frenati dai timori: “I nostri parenti non ci hanno abbandonati, nonostante tutto. Perfino le mogli a volte. Però abbiamo bisogno di vederli di più, soprattutto i bambini. Sei ore al mese non bastano”. Ma è la paura del futuro a bloccare ogni slancio: “Quando sono entrato in carcere non c’era nemmeno internet. Ora sto per uscire e non capisco il mondo che mi aspetta”.
Intanto il giro si compie. Hanno parlato tutti tranne lui: Alberto, una condanna a 29 anni più lunga dei 26 anni che finora ha vissuto. Ti guarda dritto negli occhi, ma non per sfida. Gli pare forse di non dover fuggire. Se ne sta in un angolo aspettando che il discorso alla fine arrivi a lui. Perché Alberto è l’unico che ha ucciso: “L’ho strozzata”, dice e senza volere si guarda le mani. Intorno si fa silenzio mentre il ragazzo racconta quei momenti: “Era una mia amica. Mi ha dato una coltellata nel braccio come per difendersi”, racconta non per trovare giustificazioni, ma per spiegare, “appena ho visto quel sangue ho perso la testa. Come se mi stesse uscendo fuori tutto l’odio per il mondo che mi tenevo dentro da anni, da quando ero nato. E… le ho stretto i lacci della sua borsetta… intorno al collo”. Nessuno fiata, come se non si avesse il diritto di interrompere Alberto: “Posso avercela solo con me stesso. Ogni giorno rivedo quella donna; lei e sua figlia alla quale ho tolto una madre. A volte penso che quel gesto non mi riflette, ma l’ho fatto e lei non c’è più”. Non sembra fingere Alberto, né avrebbe senso. Ormai è stato condannato, non deve convincere nessuno.
Ma che cosa è successo in quel momento? “È un buco nero”, ti guarda Alberto quasi aggrappandosi a te. E Ivan gli viene in aiuto: “Vedi quello che succede, ma non riesci a fermarti”. Giancarlo annuisce: “Capivo di sbagliare, ma non riuscivo a farci niente”. “Alberto oggi non è una persona pericolosa”, è pronta a giurare e a mettere per iscritto nella sua relazione Marina Valcarenghi. E lui potrà forse andare a lavorare fuori dal carcere.
Alberto ha sempre ammesso l’omicidio. Ma una cosa la nega: la violenza. Come quasi tutti gli altri condannati. Come Franco che non chiede sconti per le percosse alla moglie, ma nega di aver violentato l’amica di lei. Come Gabriele, come Matteo. Come Ivan: “Non nego niente, accetto la condanna. Ma non ho commesso violenza sessuale”. Ammettere di aver tolto la vita si riesce, di aver violentato una donna no. È la paura di essere considerato un intoccabile. Dalle persone che ami. Dagli altri carcerati. Ma soprattutto da te stesso. E alla fine senti di nuovo quella domanda: “Sono un mostro?”.
Ferruccio Sansa