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 2014  settembre 19 Venerdì calendario

Vincenzo Nibali“Prima per strada mi riconoscevano in due o tre, ora in cinque o sei”. Da “teppistello” di Messina a conquistatore di Parigi il lungo viaggio del ciclista che amava Pantani ma ricorda Gimondi Sì, sono il campione della porta accanto GIANNI MURA CHIASSO (SVIZZERA) ARRIVA in ritardo di pochi minuti, Vincenzo Nibali, e si scusa

Vincenzo Nibali“Prima per strada mi riconoscevano in due o tre, ora in cinque o sei”. Da “teppistello” di Messina a conquistatore di Parigi il lungo viaggio del ciclista che amava Pantani ma ricorda Gimondi Sì, sono il campione della porta accanto GIANNI MURA CHIASSO (SVIZZERA) ARRIVA in ritardo di pochi minuti, Vincenzo Nibali, e si scusa. Meglio qui che a Parigi, gli dico. Colpa della lavatrice, si è guastata, dice lui. Apprendo così che in Svizzera nei condomini non possono tenere la lavatrice in casa, ma nel seminterrato, e ogni famiglia deve rispettare i turni di lavaggio prefissati. Il ritardo, però, mi ha permesso di fare il punto su alcune cose con i suoi manager, Alex e Johnny Carera. È nel loro ufficio, vicino alla stazione ferroviaria, che si svolge l’intervista. Nibali è con loro dal 2003, da quand’era un giovane promettente (medaglia di bronzo ai Mondiali Juniores contro il tempo, a Zolder). Hanno in scuderia molti altri ciclisti, tra cui Fabio Aru. Con la Astana, la sua squadra, Nibali ha ancora due anni di contratto e con Aru nessun problema di coesistenza. Chiedo se la vittoria al Tour de France, sedici anni dopo Pantani, abbia portato richieste di pubblicità. Sì, dicono i Carera, per ora hanno sottoscritto un accordo con Oakley (occhiali). «Ma ci sono molte altre proposte, nessuna da aziende italiane: tutte da aziende straniere che hanno interessi in Italia. Compagnie aeree, orologi, banche. Valuteremo con calma. Unica condizione è non toccare gli interessi dell’Astana, cioè supermercati, motori, acque minerali, gas, petrolio ». E poi arriva Nibali, t-shirt e jeans, e parte la prima domanda al capitano della Nazionale ai Mondiali di Ponferrada in Spagna, in programma da oggi fino alla corsa regina di domenica prossima, quella su strada a squadre. Dopo il Tour, è cambiato qualcosa intorno a te? «Forse sono un po’ più riconosciuto e considerato. Prima, mentre mi allenavo sulle strade del Canton Ticino, mi salutavano due o tre persone». E adesso? «Cinque o sei. Sono aumentati gli inviti, gli impegni, le feste. Sono stato una settimana in Kazakistan». E poi dove nessuno ti aspettava, a fine agosto, al funerale di Alfredo Martini, il grande ct azzurro. «Ero appena tornato dal Kazakistan e Michele Pallini, il mio massaggiatore, mi dice che Alfredo è agli ultimi, che devo sbrigarmi se voglio fargli un saluto. Era pomeriggio. Ci vado domattina, ho detto a Michele. Ma alle undici di sera mi ha chiamato per dirmi che Martini era morto. Così ho aspettato il funerale. Mi hanno chiesto di portare la bara ma ho detto di no, non volevo mettermi al centro dell’attenzione ma solo salutarlo. Nel ciclismo, Martini era il papà di tutti. Bastava parlarci una volta per capirlo. E le sue parole ti restavano dentro, non era uno che parlava tanto per parlare». Dopo il Tour, è cambiato qualcosa dentro di te? «Nulla, assolutamente nulla. Sono rimasto quello di prima, anche se la soddisfazione, quando ripenso al gradino più alto del podio, a Parigi, è tanta. Ma non posso dormirci sopra. Sono un professionista che non ha smesso di sognare». L’attualità Mia sorella l’ultra ortodossa La storia Ritorno a Marzabotto Spettacoli Inedite Evacuazioni da Skiantos L’incontro Stephen King “Alzheimer che paura” UN “PICCOLO” VINCENZO NIBALI CON LA SUA PRIMA BICI DA CORSA LUNGO LO STRETTO GIANNI MURA HO NOTATO che la parola sogno ricorre spesso nelle tue dichiarazioni. Sai cosa mi disse tanti anni fa Martini quando gli chiesi le prime tre parole che gli venivano in mente a nominare il ciclismo? Dignità, libertà, speranza. «Sottoscrivo. Per me sogno e speranza sono parenti. È aspettare che succeda qualcosa. Vincere, visto il mestiere che faccio. Ma voi dovete tener conto di una cosa non secondaria: che io per vincere devo staccare tutti, perché non ho sprint. Per questo credo di assomigliare di più a Gimondi che a Pantani, uno scalatore puro che in salita faceva il vuoto». Cosa pensi della riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pantani? «Che può essere una minima consolazione per la famiglia di Marco, ma non so a quali conclusioni potrà arrivare. Io preferisco ricordare Pantani da vincitore, con la bandana. Anch’io come tanti ragazzini di Messina andavo in bici con la bandana». Sei entrato nel cosiddetto club della Tripla Corona (Giro, Tour e Vuelta). Gli altri sono Gimondi, Merckx, Anquetil, Hinault e Contador. Non ti gira un po’ la testa? «So che loro hanno vinto molto più di me e so di non aver rubato nulla a nessuno. So che cercherò di vincere altre corse, per esempio il Giro. Mi sento in debito coi tifosi italiani. Ma anche altre corse. La Liegi-Bastogne-Liegi è come una lisca in gola, per me, e il Lombardia mi piace molto e posso vincerlo, se non corro da cavallo pazzo come ho fatto in passato». A proposito di rubare, Hinault ha definito ladro il ciclista dopato, perché toglie il pane (il risultato e relativi guadagni) a chi corre solo con le sue gambe. Al Tour, forse per via della maglia Astana, ogni giorno ti chiedevano del doping, e tu hai sempre risposto con una calma che molti tuoi colleghi non avrebbero avuto. «La mia calma è quella di chi non ha nulla da nascondere. Per me parla la mia carriera. Sono salito un gradino alla volta. Tutto quello che ho vinto è frutto di sacrifici, fatica, forza di gambe e di testa. Orgoglio, anche. Ho la testa dura, non mi arrendo facilmente». Mai pensato di smettere? «Forse una volta sola, da allievo. Mi annoiava allenarmi da solo». E tuo padre ti convinse a continuare con una sberla? «No, quella volta no. Anzi, fu bravo a scovare nel quartiere qualcuno che mi accompagnasse nelle uscite. In gruppo era più bello, ci si fermava per una partita a biliardino, o un bagno a Torre Faro, o una granita con la panna. Si andava sul colle di San Rito, ai laghi di Ganzirri». Altre volte tuo padre te le ha suonate? «Parecchie volte. Ero un teppistello. Facevo il contrario di quello che mi chiedevano. Magari mio padre mi diceva di dare un’occhiata in negozio finché non fosse tornato ma appena svoltava l’angolo, me ne andavo». E quando ti segò la bici in tre pezzi che avevi fatto? «Era per una nota in pagella, me la ricordo: “Litiga violentemente coi compagni di classe all’uscita di scuola” e stiamo parlando delle medie. Avevo tre o quattro compagni con cui era facile litigare, perché provocavano. Ma poi papà la bici l’ha saldata». Sembra che la bici sia stata una vocazione precoce. «È come se mio nonno mi avesse dato un casco, mio padre infilato il calzoncini da corridore e mia madre la maglia. I miei avevano una videoteca coi primi superotto, i vhs. Ho visto documentari su Moser e Saronni, su Gimondi, risalendo fino a Coppi e Bartali. Cos’altro potevo fare se non il ciclista?». Hai mai provato altri sport? «A scuola non ero male nella corsa campestre, ma anche a pallamano. Il professore di ginnastica era patito di pallamano e a quella ci faceva giocare, non a basket o a volley. Il calcio l’ho provato per pochi giorni, nel Peloro, un satellite del Messina, quando avevo undici anni. Ma non mi sembrava così divertente prendere i calci negli stinchi, così ho detto all’istruttore che preferivo il ciclismo. E lui m’ha detto che sarei diventato un morto di fame, perché in Italia i soldi si fanno col pallone». Abbastanza vero, con qualche eccezione. Quanta importanza dai ai soldi? In una tua intervista a un mensile ho letto che sai di poterti permettere di comprare una Ferrari ma non hai difficoltà a salire su un tram. «I soldi hanno la loro importanza ma non bisogna farsene un’ossessione. Io e tanti altri che da ragazzini hanno scelto la bici non siamo stati spinti dall’idea del guadagno. E qui torno al sogno. Senza quella molla non sarei partito a sedici anni da Messina e ringrazio i miei perché non mi hanno ostacolato. Non dico fermato, perché fermarmi era impossibile: stavo inseguendo un sogno e quel sogno mi ha spostato da Messina a Mastromarco». È stata dura? «Il primo anno sì. In bus fino a Empoli, scuola, rapido pranzo preparato dal fratello di un dirigente. Noi lo chiamavamo il fattore, ma factotum sarebbe stato più giusto. Poi allenamento in bici, studio, cena e nanna presto». Noi chi? «Con me c’era un altro ragazzo siciliano, Carmelo Materia, ma non ha retto l’impatto con la scuola. Io invece mi sono diplomato ragioniere al Leonardo da Vinci, ultimo anno da studente serale. Ma dopo quel primo anno le cose sono andate molto meglio, mi ha preso in casa la famiglia di un dirigente e mi ha trattato come un figlio, e non è un modo di dire. Mi hanno anche aiutato a superare un momento difficile. Da junior ero campione d’Italia e avevo vinto quindici corse, da dilettante manco mezza. Mi sorpassava gente che la stagione prima battevo regolarmente. Non ho pensato di smettere, ma ero giù, dopo una domenica ancora a bocca asciutta mi è scappato da piangere sull’ammiraglia. E Franceschi mi ha consolato: vedrai che le cose cambieranno. Infatti, sono state fermate due o tre squadre diciamo così sospette e io ho vinto sei corse di fila. È un caso, secondo te?». Direi di no. «Appunto. Allora, tornando al doping, neanche a me fa piacere essere svegliato alle 6.30 per un prelievo di sangue, ma lo accetto perché questi controlli fanno parte del mestiere. Ti dico di più: da quando l’antidoping funziona più seriamente, con maglie più strette, io lo considero un mio alleato, non certo un ostacolo o una trappola». Dal Tour, quando ormai avevi vinto, ho scritto che tu non saresti mai diventato un personaggio. Sei normale, serio, non fai polemiche, non frequenti assiduamente i social network, non hai bandane né tatuaggi, non vai in discoteca, insomma non sei pop. «In questo senso, mi sta bene. Preciso che in discoteca non ci vado perché mi piace la musica ma non mi piace ballare, e poi gli orari delle discoteche saranno compatibili con quelli dei calciatori, forse, ma non con quelli dei ciclisti. Non sono pop, ma popolare sto diventando e ci tengo. Se non ci fosse il pubblico degli appassionati, e sono tantissimi, il ciclismo non esisterebbe. È uno sport che si fa in mezzo alla gente, con la gente, per la gente». È per il fatto della gente che hai dichiarato simpatie, passate, per Grillo? «Sì, perché un anno fa andava in mezzo alla gente, come fa il sindaco di Messina, ma poi mi ha molto deluso quando in videoconferenza ha praticamente rifiutato ogni dialogo con Renzi». Come vivi le cose d’Italia dal Canton Ticino? «Forse non lo sai, ma qui abitano 110mila italiani, in larga parte calabresi, come quelli del ristorante qui all’angolo, e siciliani, come il macellaio di Viganello, la frazione di Lugano dove ho casa». Ti sei mai posto il problema di poter essere considerato un esempio? «No. Io faccio quello che volevo fare da ragazzino, sono fortunato. Lo faccio, credo, con molta serietà e onestà. Posso vincere tanto o poco, ma vado a letto con la coscienza posto. E non sta a me dire se sono un esempio o no, sarebbe andare oltre le righe». A volte si direbbe che ci siano due Vincenzo Nibali. Uno tutto slancio e istinto, l’altro che si appisola in auto dall’albergo alla partenza e dall’arrivo all’albergo. «I tempi di recupero sono la mia salvezza. La tensione, prima o dopo la tappa, non la conosco, sono refrattario. Non consumo energie nervose. Come va, va». Per certi versi sei antico. Armstrong imparava il Tour a memoria, ha fatto due volte la Madeleine in un giorno perché la prima non s’era piaciuto, e non so quante volte l’Alpe d’Huez. Idem le cronometro. Tu dell’ultimo Tour hai visto prima solo i tratti di pavé intorno all’Isla, dove hai rifilato due minuti e mezzo a Contador. Nibali ride: «Vuoi sapere la verità? Martinelli voleva fare una seconda ricognizione, io gli ho detto che una bastava e avanzava. Posso usare un linguaggio volgare?». Puoi. «Per me, sono seghe mentali queste di imparare un percorso a memoria». Ma adesso parliamo ugualmente di percorsi: c’è una salita che ami particolarmente? «La salita è fatica, come si fa ad amare una salita? Posso dire che la più dura su cui ho pedalato è lo Zoncolan, poi il Mortirolo. Scenograficamente, belli lo Stelvio e la Bonnette. Per gli arrivi, visto che da ragazzino guadagnavo qualche soldo facendo fotografie alle corse, sceglierei Plan de Corones o la Plances des Belles Filles, dove chi vince lo vedi solo all’ultimo e sembra sputato dalla terra». Rovescio la domanda, visto che sei un ottimo discesista: c’è una discesa che senti più tua? «Non mi piacciono le discese con molti tornanti, preferisco quelle tecniche con curve veloci. Una discesa mi è rimasta impressa. A Monterosso Almo, in provincia di Ragusa, c’è un lungo dirizzone dove si arriva a 105/110 all’ora senza pedalare, cambio bloccato sul 52x16. L’ho fatta da allievo. Se frenavi gli altri andavano via. E allora non freni e non pensi alla paura. Basta tenere la bici dritta e lasciarsi andare giù, non è difficile». Hai un colore preferito? «Il blu. Molte delle mie maglie avevano questo colore. Dalla prima, il Gs Fratelli Marchetta, blu bianco rossa, alla Mastromarco, gialla e blu. Quell’Astana è azzurra, ma più blu che azzurra è quella della Nazionale, la più importante. E credo che amare il blu sia naturale per chi è nato sul mare di Messina. Più che portarlo addosso, io il blu lo porto dentro». © RIPRODUZIONE RISERVATA DA BAMBINO UN’IMMAGINE DI VINCENZO A DUE ANNI CON PAPÀ IN BRACCIO AL PADRE SALVATORE COL FRATELLO IN BICI CON ANTONIO, A SINISTRA PRIMI SPRINT SULLA SUA PRIMA BICI DA CORSA PRIME VITTORIE SUL TRAGUARDO DA JUNIORES PRIMO TOUR CON LA MOGLIE RACHELE E LA FIGLIA EMMA A PARIGI FOTO DI ROBERTO E LUCA BETTINI