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 2014  settembre 18 Giovedì calendario

MI CHIAMO ZOFF E TROVO BICCHIERI

[Intervista a Dino Zoff] –

Le parole sono importanti e Dino Zoff, prima di pronunciarle, le sceglie con cura, le soppesa un istante tra la lingua e il palato e poi le lascia uscire dalla bocca, con quel suo modo che non è cambiato: «Faccio addormentare, lo so».
È perché le parole sono importanti che gli piace Guccini – «Il respiro che inciampa tra i denti, non è un verso bellissimo?» – ed è per una forma di rispetto che nella vita non ne ha sprecate troppe. «Ma adesso che sono vecchio mi sento molto più libero di dire. Ci dovrà essere qualche vantaggio nella vecchiaia».
La sua, di vecchiaia, si intuisce appena dal grigio delle tempie, perché per il resto il nostro più grande portiere di sempre tiene a bada i suoi 72 anni facendo quello che ha fatto per tutta la vita: sfidando il suo corpo, e se stesso, con lo sport. Nuoto, tennis («ma cerco di evitare il singolo: sono ancora competitivo e le sconfitte mi bruciano»), soprattutto il golf, che in comune con il calcio ha l’erba, il cui odore (lo dico io, lui mi corregge: «È un profumo») è la cosa che gli manca di più di tutte. «Sono figlio di contadini, quel profumo lo conoscevo molto bene già prima di finirci con la faccia in mezzo, ogni giorno».
Racconta nella sua autobiografia Dura solo un attimo, la gloria, in uscita il 23 settembre, che cominciò a buttarsi a terra perché nonna Adelaide, generalessa nei modi ma con una spiccata preferenza per quel nipote, si divertiva a lanciargli delle prugne che lui doveva prendere al volo, e non sempre ci riusciva. «Ma quello era solo un gioco. In realtà non lo so nemmeno io perché ho fatto il portiere, so solo che è stata una vocazione e come tale l’ho vissuta, e che non ho mai cercato né voluto un altro ruolo: il mio posto era lì, tra i pali».
Un uomo notoriamente silenzioso e riservato come lei che scrive la sua autobiografia. Che cosa è successo?
«Hanno sempre detto che ero un orso perché parlavo poco. In realtà lo facevo perché non mi piaceva fare commenti sui compagni di squadra né sugli avversari. Così dovevo parlare e dire banalità. Ma le banalità le puoi dire una volta, due, tre. Poi meglio tacere. La mia storia l’ho scritta per i miei nipoti, Pietro e Clara, così capiranno chi è questo nonno che la gente ferma ancora per strada e loro non sanno bene perché».
Che cosa vuol dire essere un portiere?
«Sei un diverso: giochi con le mani, passi la maggior parte della partita da solo, hai meno onori, ma più critiche di tutti gli altri. Sei quello che si prende la responsabilità. Una cosa che mi è sempre piaciuta, fin da quando ero piccolo e i ragazzi più grandi tiravano palloni impossibili per vedermi parare e cadere. Ero quello “bravino”, il diminutivo era colpa della mia altezza, sempre troppo scarsa. Ma mia nonna mi dava 3 o 4 uova al giorno e a un certo punto sono cresciuto di botto e sono diventato “bravo”. Sicuramente ce l’ho messa tutta, sempre. Vengo dal Friuli dove l’unica cosa che conta è lavorare bene».
Nel libro avverte: non chiedete mai a un portiere che cosa pensa quando è tra i pali. Ma glielo chiedo lo stesso.
«Quando sei lì da solo la testa ti porta a pensare ai tuoi errori: quelli che hai commesso poco prima, la settimana scorsa, un anno fa. Ma bisogna resistere. Io per tenere la mente sgombra ho sempre fatto la telecronaca mentale della partita. La verità è che quando sei lì capisci che un portiere non sarà mai un artista, non può creare niente».
Non pensa che certe parate siano dei miracoli?
«Andrei piano coi miracoli: ne hanno fatti pochi anche i santi».
Lei almeno uno ne ha fatto?
«Sì, forse la parata negli ultimi minuti di partita col Brasile, il 5 luglio dell’82. Me la ricordano tutti, non posso certo dimenticarla».
Pensa spesso al passato?
«No, non ho mai amato nemmeno riguardarmi. Ancora adesso se mi capita di rivedermi penso sempre che avrei potuto fare di più».
Quella notte in Spagna è stata la più bella della sua carriera?
«Niente, nella vita, ti dà le stesse gioie di una vittoria. Niente. Neanche la nascita di un figlio, che è una gioia, certo, ma più diluita. Invece lo sport è così: una bomba che ti scoppia dentro. E quindi sì, è stata la più bella. Tanto che, forse per la prima e unica volta, mi sono lasciato andare: ho baciato Bearzot, stavo per baciare anche la Regina di Spagna. Per fortuna mi hanno fermato».
Poi, racconta, mentre tutti erano fuori a festeggiare, lei stava sdraiato sul letto a fumare, insieme con Scirea. Siete stati molto amici?
«Avevamo un legame speciale perché era un uomo speciale. Ha vinto più di tutti, ma non è mai diventato un personaggio, perché aveva uno stile elegante di giocare e stare al mondo. Per tanto tempo mi sono sentito responsabile per la sua morte: ce l’avevo mandato anche io in Polonia a vedere come giocava quella squadra che avremmo dovuto incontrare (tornando da quel viaggio Scirea ha avuto un incidente stradale mortale, ndr). Ma alla fine ho capito che il destino è destino».
La fama non l’ha tentata nemmeno un po’?
«Volevo diventare famoso per i numeri, quelli che si fanno in campo. Non voglio fare il falso modesto: i riconoscimenti mi hanno sempre fatto piacere. Ma il personaggio non è mai diventato più importante del lavoratore».
Forse anche perché ha avuto una vita tranquilla: la stessa moglie da sempre, una famiglia normale.
«Sa, la vita uno se la fa, tranquilla. E poi, eventualmente, le cose vanno gestite con un certo pudore. Soldati diceva di me che sono un cavaliere dell’Ottocento. Probabilmente è vero: non sono modernissimo, ma sono aperto. Però credo che certe regole siano eterne: adesso sono tutti così sinceri, dicono tutto, i Soloni della verità. Dimenticando che la verità è la loro verità».
Il calcio di oggi le piace ancora?
«Il campo è sempre lo stesso, i giocatori sono sempre undici. È cambiata qualche regola e un pochino il contorno. Ciò che è cambiato davvero è la spettacolarizzazione: i balletti dopo i gol, quelle cose lì».
Si sentiva diverso, in campo e fuori?
«Le persone non cambiano. Sotto la pressione di un incontro viene fuori davvero chi sei, la parte più profonda di te, qualcosa che hai comunque dentro. Io non ho mancato una partita in undici anni perché ho sempre avuto paura di non avere abbastanza coraggio, e l’ho sconfitta così, questa paura, essendoci sempre. Come tutti i timidi ho i miei demoni dentro. Ma a volte una mancanza si può trasformare in un vantaggio».
A proposito di demoni, che cosa pensa di Balotelli?
«Penso sia bravo, ma viene sempre giustificato, quindi non impara mai, non viene messo di fronte alle sue responsabilità, non cresce e si sente una vittima. Non viene fischiato per il colore della pelle – ci sono altri giocatori di colore che non vengono fischiati e ci sono giocatori non di colore che sono fischiatissimi – ma per come si comporta in campo. I tifosi non perdonano: io ho fatto i Mondiali del 1974, siamo usciti al primo turno e quando siamo atterrati in Italia sono dovuti venire a prenderci all’aeroporto i cellulari della polizia per proteggerci».
Lei ha avuto due carriere: una da calciatore e una da allenatore. Sono state soddisfacenti allo stesso modo?
«Ho smesso di giocare a 41 anni e quel giorno ho sentito che la parte più bella della mia vita, forse la giovinezza stessa, era finita. Poi sono stato un bravo allenatore, più bravo di quanto mi venga riconosciuto, ed è stata una bella stagione anche quella. Che poi è finita. Sono vecchio ed è giusto che viva da vecchio e lasci spazio ai giovani. Ho una moglie, un figlio, due nipotini, posso fare altre cose. Però certo c’è qualcosa di violento nella fine delle carriere, solo il contadino si stacca con gradualità dalla terra, facendo quello che può fino all’ultimo, vedendo crescere la pianta che ha seminato».
Come si è trovato un contadino friulano trapiantato da cinquant’anni a Roma?
«Vorrei tornare alle mie radici, ma sento che ormai la mia vita è qua. All’inizio avevo paura di questa città, ma poi ci ho vissuto benissimo. Non sono adattabile, ma so prendere il meglio da ogni situazione, e l’ho fatto anche qui. E poi io credo che se uno si porta dietro la dignità, allora può stare bene ovunque. La dignità ti permette di non avere mai paura, di poterti sentire alla pari con tutti, anche con il presidente della Repubblica».
Infatti una foto famosa la ritrae mentre gioca a carte con Pertini.
«Abbiamo fatto coppia a scopone sul volo di ritorno dalla Spagna. E abbiamo perso. Subito ha detto che era colpa mia, poi mi ha scritto una lettera: sono stato io a sbagliare».
E invece con il presidente del Consiglio Berlusconi ebbe qualche problema.
«Mi ha criticato pesantemente per la sconfitta della Nazionale agli Europei del 2000. Non ci ho mai parlato. All’inizio qualche suo sottoposto cercò di contattarmi, ma le cose caddero nel vuoto. Io non serbo rancore, però ho la memoria lunga».
Che squadra tifa?
«Tifare non è nella mia natura, è una cosa poco obiettiva e io sono troppo tecnico per tifare».
Ce l’avrà una squadra del cuore!
«La Juve, il Napoli e la Lazio, quelle in cui sono stato».
Una sola moglie e tre squadre: non è possibile. A proposito, che marito e padre è stato?
«Marco è cresciuto bravissimo, senza l’aiuto di nessuno. Come marito credo di essere stato discreto, non straordinario, forse un po’ troppo assente fra trasferte e allenamenti».
Dice che in casa non ha mai saputo fare niente. Adesso che è in pensione una mano a sua moglie la dà?
«La mia idea è che ognuno fa il suo lavoro: io ho fatto il portiere e mia moglie ha fatto la moglie e la mamma, un lavoro molto più impegnativo del mio. Questo discorso lei fa ancora fatica a capirlo, ma nel frattempo io sono un po’ migliorato e, se mi chiede un bicchiere, forse riesco a trovarlo».