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 2014  settembre 18 Giovedì calendario

QUEGLI SPOT PUBBLICITARI NEL ROMANZO DI MURAKAMI

In ordine di apparizione: Lacoste, Brooks Brothers, Yamaha, Mercedes, Lexus, Apple, Bang & Olufsen, Porsche, Cutty Sark, Tag Heuer, Casio, Volkswagen Golf. Dodici marchi (salvo omissioni). Non si susseguono in una serie di spot prima della partita, ma nel romanzo di Murakami Haruki: L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio.
Si tratta di un bestseller internazionale, al numero uno nelle classifiche di vendita negli Stati Uniti. Non solo premiato dai lettori, ma anche apprezzato dai critici. Qui il punto non è amare o detestare l’opera di Murakami, ma chiedersi: nessun altro, a pagina 115, ha avuto non dico un sussulto, ma un leggero fastidio? E, in sequenza: sappiamo che birra beveva Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce? Ovvero: in letteratura è lecito citare i marchi? O esiste un limite oltre cui scatta il product placement, la bibliopromozione?
Parto da pagina 115 e dal solitario fremito di insofferenza. Le altre citazioni del romanzo sono en passant. Poi si arriva alla Lexus. Il protagonista, l’incolore TT, si è imbarcato in un personale viaggio-indagine. Molti anni prima fu scaricato dai quattro inseparabili compagni di liceo con cui formava un gruppo all’apparenza indissolubile: cinque righe di un pentagramma. Lo esclusero all’improvviso e senza spiegazioni. Ne derivò un trauma che compromette le sue relazioni affettive anche nell’età matura. Spinto da una donna per cui ritiene valga la pena superare l’ostacolo, rintraccia i vecchi amici in cerca della verità. Uno di loro è divenuto un concessionario. Di auto, verrebbe genericamente da scrivere. Murakami è più preciso, vuol farci immaginare il set in cui avviene l’incontro. Gli occorre specificare il marchio, Lexus, farci sapere che è stato «creato dalla Toyota» per convincere «la gente che finora ha comprato auto di lusso straniere» a cambiare idea. Il concessionario dichiara fiero: «È il suo fiore all’occhiello. Ci vorrà del tempo. Sono sicuro che funzionerà». Lo è anche il lettore: ha letto più volte quel nome, sfogliato con il signor TT i cataloghi, bevuto un caffè «ottimo» da «tazze color crema con impresso il logo della Lexus».
L’ambiente è descritto con perfezione tridimensionale, ascoltiamo musica di Jobin, sentiamo paragonare i modelli di auto a sinfonie di Brahms. Il concessionario parla come un concessionario. Ma il protagonista taglia corto e dà voce al nostro pensiero: «Non sono venuto a comprare una macchina. Scusami». E con questo dovremmo tornare alla storia, affrontare un botta e risposta sulla verità sepolta. Fine dell’intervallo pubblicitario. Invece, quando, dopo la pausa i due si reincontrano, la prima domanda dell’incolore TT non è: «Perché sedici anni fa mi avete tagliato fuori?», ma: «Le Lexus si vendono bene?». Un assist da comprimario in uno spot, che porta alla risposta seguente: «Io stesso ho una Lexus. Una macchina stupenda. Silenziosa e affidabile. Sul circuito di prova ho toccato i duecento all’ora, ma il volante non aveva la minima vibrazione. Anche i freni sono ottimi. Una meraviglia, ti dico. È bello poter consigliare ai qualcosa che ti piace».
Anche ai lettori? O Murakami sta solo cercando di rendere un personaggio, un piazzista perenne? Con lo scatto auotoironico di fargli chiedere poi: «Ti sembra che parli come il tipico rappresentante di automobili?». E di fargli rispondere: «No, affatto». Sofisticatissimo, se è davvero un modo di riprodurre la realtà al contempo negandola. Scivoloso, se superfluo. Sospetto, se ripetuto. A pagina 252 l’incolore TT getta un’occhiata «al Tag Heuer» che ha al polso. Non all’orologio, al «Tag Heuer». E fin qui, serve a darci un’idea: l’ha ereditato dal padre che era un uomo di successo, aiuta a definirlo, come le Mercedes che cambiava ogni tre anni. Poi, però, poche righe più sotto: «Quell’orologio era un manufatto meccanico di miracolosa finezza. Anzi, meglio dire che era una bellissima opera d’arte artigianale. Funzionava instancabile. E ancora oggi, dopo aver continuato a lavorare senza sosta per quasi mezzo secolo, indicava l’ora con sorprendente precisione».
Sono l’unico tra le migliaia di lettori ad aver provato la sensazione che qualcosa fosse inappropriato? Più ancora di quando lo stesso Murakami in Kafka sulla spiaggia battezzò un personaggio Johnny Walker e lo vestì come l’omino sull’etichetta del whisky? I casi in cui nomi di prodotti sono apparsi in un’opera letteraria sono molteplici e variamente giustificabili. Brett Easton Ellis in American Psycho e Glamorama ne utilizzava a manciate, ma erano una specie di arredo inevitabile per descrivere l’ossessione della griffe che colpiva i protagonisti, i loro ambienti, il loro tempo. Mordecai Richler in La versione di Barney fa bere ripetutamente whisky Macallan al suo personaggio, e in effetti noi già capiamo che tipo è. Nel postumo Il giardino dell’Eden Ernest Hemingway addirittura costruisce l’intera vicenda intorno a un pellegrinaggio alle fonti dell’acqua Perrier, che diventa una sorta di fonte mitologica (diversamente evocata da Paolo Villaggio in Fantozzi). Geoff Dyer in Yoga per chi non ne vuole sapere dedica un racconto ai sandali Teva e ti convince che sono i migliori al mondo, ma è una storia vera, glieli ha regalati una donna e ci gira il mondo. O neppure questo è giustificabile e poco cambierebbe se si parlasse di un «malto invecchiato», una «miclienti nerale frizzante», una paio di «calzature da trappista»? Ho provato a fare un mini sondaggio tra chi aveva letto l’ultimo Murakami. Uno su dieci aveva notato con fastidio il passaggio sulla Lexus (ma non quello sul Tag Heuer). Indotti a rivalutare le pagine, metà dei lettori (grandi sostenitori) le hanno trovate «un espediente voluto che l’autore saprebbe giustificare», l’altra metà (meno convinti) ha sentenziato senza appello: «Ha preso i soldi».
Non sono sicuro né dell’una né dell’altra tesi. Credo che la letteratura sia scrittura dell’indispensabile. E così quando a pagina 37 dell’incolore TT leggo: «A lei piacevano le co se della Lacoste e di Brooks Brothers» resto sereno perché con quella definizione capisco già il personaggio. All’affidabilità in curva della Lexus sbando, ma forse è una mia sensibilità, che il presente dal respiro sponsorizzato ritiene trascurabile. Non penso che a uno scrittore del livello di Murakami un editor abbia tracciato sulla pagina115 una leggera bisciolina laterale scrivendo a matita con tratto leggero: «È indispensabile? ». Così tocca a un disperso, lontano lettore domandare: «Haruki-san, era indispensabile?».