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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

MEDIOBANCA, IL DECLINO È TUTTA COLPA DI ALBERTO NAGEL?

Milano
Se è caduto l’Impero Romano, perché non dovrebbe cadere Mediobanca?”. La domanda che, secondo la ricostruzione di Giorgio La Mal-fa nel recente libro Cuccia e il segreto di Mediobanca (Feltrinelli), il suo storico fondatore si poneva già negli anni Novanta, forse più per scaramanzia che per altro, è più che mai attuale. E se di vera e propria caduta non si può parlare, è innegabile che la banca d’affari abbia profondamente cambiato pelle da quando, nel 2003, dopo la burrascosa uscita del delfino di Cuccia Vincenzo Maranghi, Alberto Nagel è salito al comando prima come direttore generale e dal 2007 come amministratore delegato. E ora che l’ad di Mediobanca, classe 1965, è in scadenza di mandato, si possono cercare di tirare le somme di undici anni ai vertici.
“Il cambiamento – spiega Giancarlo Galli, biografo ufficiale di Cuccia – è sostanziale: finché c’era Cuccia, Mediobanca era al centro della grande finanza internazionale. Dal fondatore venivano a discutere e spesso anche a prendere ordini i vari Agnelli, Pirelli, Cefis e così via. Ma venuto a mancare Cuccia nel 2000, Mediobanca ha cessato di essere se stessa, un po’ come accaduto anche alla Fiat quando è scomparso Gianni Agnelli. Il declino dell’istituto rispecchia il declino dell’intero paese e di un sistema industriale, quello italiano appunto, che non esiste più e non conta quasi più nulla a livello mondiale. Una volta, l’istituto era una ramificazione della costellazione della grande finanza internazionale. Ora cerca di fare quadrare i suoi conti, ma avendo perso il ruolo di regista non ha più una grande influenza”. Insomma, se un tempo Mediobanca rappresentava il salotto per eccellenza nel mondo degli affari all’italiana, il centro pulsante del capitalismo di relazione, da cui partiva tutta una serie di sotto-salotti collegati, nel corso dell’ultimo decennio il sistema è imploso. Ad assestargli il colpo finale è stata la crisi economica, che ha messo a nudo tutte le inefficienze cui la finanza delle strette di mano può condurre. Ecco perché Nagel, nel giugno del 2013, annuncia uno storico piano industriale, che sancisce, tra le altre cose, entro il 2016, l’uscita dai salotti un tempo forse “buoni” di Telecom Italia e Rcs, e il ridimensionamento della quota nelle Generali, storico crocevia degli affari di casa nostra.
“Il business delle partecipazioni nelle società quotate ormai non è più redditizio”, ammette amaro Nagel. E c’è da credergli: ancora l’ultimo bilancio di Telco, la finanziaria che partecipa Telecom Italia con la quota di maggioranza, ha presentato un conto da oltre 3 miliardi agli azionisti Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Generali e la spagnola Telefónica. Per non parlare di Rcs, la società editrice del Corriere delle Sera, nelle cui casse, ancora nel 2013, gli azionisti, tra cui di nuovo Mediobanca e Intesa (le Generali, pure socie, hanno preferito non aprire il portafogli), hanno dovuto iniettare poco più di 400 milioni come aumento di capitale. E così l’istituto di Piazzetta Cuccia, poco più di un anno fa, preannuncia l’uscita dai vari patti di sindacato e dai salotti finanziari (oltre a Rcs e Telco anche Pirelli, Gemina, Sintonia e Atlantia) per tornare a concentrarsi sull’attività bancaria pura, prestare cioè denaro ai clienti, e su tutti i servizi collegati agli investimenti, con un occhio di riguardo per i mercati esteri. In realtà, la sua ricetta Nagel l’aveva fornita già dieci anni fa: “Sempre più banca e meno holding, sempre più estero e meno Italia”. Forse però non ci aveva creduto sino in fondo, perché altrimenti non si spiegherebbe l’ingresso in Telecom Italia nel 2007, con la nascita di Telco e l’acquisizione delle azioni in mano a Marco Tronchetti Provera. O forse i tempi non erano maturi per andare contro quegli stessi poteri che fino ad allora lo avevano sostenuto e che gli hanno assicurato laute retribuzioni (16 milioni i suoi stipendi da quando è ad di Mediobanca).
A Nagel non era ancora riuscito di mettere fuori gioco il sistema di potere che, in estrema sintesi, faceva perno su Cesare Geronzi, un tempo numero uno di Capitalia e più di recente presidente prima di Mediobanca e poi delle Generali, silurato dal gruppo assicurativo nell’aprile del 2011. “Il punto di svolta – dichiara Nagel in una rara intervista a Repubblica di due anni fa – è il momento in cui siamo riusciti a mettere fuori gioco Geronzi. Quello è stato l’inizio di un cambiamento epocale, per Mediobanca e per la finanza italiana. Per la prima volta, noi manager abbiamo ristabilito il primato dell’autonomia e dell’indipendenza. Siamo noi che abbiamo fatto saltare gli equilibri di quello che voi, sui giornali, chiamavate e chiamate ancora il salotto buono dei poteri forti”. Secondo la versione di Nagel, tra il 2009 e il 2010, con il sostegno dell’allora premier Silvio Berlusconi, Geronzi e Vincent Bolloré “hanno cercato di entrare da padroni” nella galassia che fa capo a Mediobanca attraverso la testa di ponte dei Ligresti.
Proprio sulla pelle della famiglia di origini siciliane si consuma la rottura più pesante rispetto all’era Cuccia: alla fine del 2011 Nagel decide che per i Ligresti in Fondiaria Sai il tempo è scaduto e – con un procedimento discutibile e complesso che gli costa un’inchiesta della procura per avere firmato il famoso “papello” di Don Salvatore – traghetta la compagnia assicurativa nelle mani dell’Unipol di Carlo Cimbri (e delle coop). E poco importa se già a partire dall’epoca di Cuccia i Ligresti erano stati finanziati a piene mani da Mediobanca, che quando esplode il caso Unipol è esposta per circa un miliardo verso il gruppo Fonsai.
Dal 2010 tante cose sono cambiate: l’asse tra Geronzi e Bolloré si è sfaldato, e quest’ultimo, abile a spostarsi dove chiamano le sirene degli affari, è tornato al centro dell’attenzione della finanza italiana. Tanto che in Piazzetta Cuccia può fare la voce grossa, visto che ne è secondo socio dietro a Unicredit. Con la quale sembra che Bolloré, ora, condivida la volontà di confermare Nagel alla guida di Mediobanca. Per capire se sarà così, bisognerà vedere quali saranno i numeri dell’esercizio di Piazzetta Cuccia chiuso al 30 giugno che saranno comunicati oggi. Gli analisti si aspettano utili per 486 milioni su ricavi da 1,77 miliardi. Mentre Nagel, che ora fa la spola tra Milano e Londra dove si è trasferita la sua famiglia, dovrebbe annunciare che il piano di uscita dai salotti procede più velocemente del previsto. Chissà cosa gli direbbe Cuccia.
Twitter @scarlots
Carlotta Scozzari , il Fatto Quotidiano 17/9/2014