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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

MARC CHAGALL INCANTO SENZA TEMPO DI FAVOLE A COLORI

Parola-preghiera di Chagall, uomo biblicamente piissimo: «Se Tu esisti, rendimi azzurro, focoso, lunare, nascondimi nell’altare con la Torah, fa’ qualcosa, Dio, in nome di noi, di me». Quando i dubbi su di sé e la propria pittura - e sono molti, continui, ulceranti - si ripresentano a urticare le sue stimmate di pittore dalle sette dita, Chagall diventa anche impaziente e sfrontato col suo Dio, sentito come troppo lontano, a lui sempiternamente crocefisso («eli, eli, lamà sabachthani!»). Lui che non vuol esser capito (nel senso di catturato), spiegato, parafrasato, come un’aria intangibile del suo adorato Mozart. Compito improbo e premessa doverosa, dunque, accingendosi a questo «componimento» di personalità. Ma è ancora possibile raccontare, compendiare, riassumere, un artista così sfuggente e tanto popolare, conosciutissimo ma ancora misterioso, come avrebbe detto, di sé, Cocteau? Non soltanto perché alcuni suoi stilemi, non si dica che sono usurati-cartolineschi, ma certo fortemente iconici, impressi affichisticamente nell’immaginario collettivo: i lampioni che camminano, Bella innamorata che vola allacciata a lui, sul cielo violetto di Vitebsk, città-mito pittorico. Le stiribaccole acrobatiche per strappare un bacio volante, l’Ebreo Errante che col suo fardello d’angustie, come una Befana talmudica, solca i camini celesti ed inciampa nel violinista sul tetto, che diventerà persino musical-film. Ma nemmeno perché il dolente Chagall è uno di quei pittori che han diviso la critica e gli stessi artisti suoi diffidenti colleghi, e che, comunque (come Modigliani, del resto, o Van Dongen o lo stesso Cocteau) ha bruciato in corsa la propria vitalità precoce, e troppo presto ha cominciato a declinare, in un colorismo facile e sfacciato, sbarellando sonnambulo, come ebbro d’enfatica acquavite cromatica: esplosa. Che fare, dunque? Riprendere in mano la sua splendida autobiografia 1921 (Abscondita) e rivificare i suoi erratici «miti».
Ma la sorpresa maggiore di questa capillare (220 opere) retrospettiva, curata da Claudia Zevi e la nipote Meret Meyer, in un momento in cui i prestiti museali son diventati proibitivi, e bisogna anche saper lavorare di fiuto con le collezioni private, è quella di ripartire - bussola per orientare la mostra - da un prezioso testo, recentemente riscoperto, in cui Chagall ritorna sulla sua autobiografia, come un pittore che ritocchi un suo vecchio quadro. Con nebbiose velature nostalgiche, ma anche con maggior acredine esplicita verso il mondo crudele: finalmente facendo i nomi dei responsabili di perfidi soprusi. L’amico Delaunay, che in un processo per furto d’opere da parte d’un potente gallerista tedesco, attesta per lettera che Chagall «non conosceva la grammatica del mestiere» e poi, forse per invidia, lo mette in guardia con i sedotti da lui surrealisti, «perché sono dei banditi». Il vicinissimo poeta Cendrars (alla Ruche) che ferocemente lo snobba, ma soprattutto i falsi-amici ch’egli convoca a Vitebsk, alla scuola di Belle Arti, e che per motivi estetico-politici lo tradiscono subito. C’è un episodio nevralgico-simbolico: la spaccatura con Malevic e El Lissitzky, che fa capire molte cose. «A loro pareva che se fossero riusciti a impadronirsi della mia Accademia e di tutti gli allievi, un quadrato nero su una tela bianca potesse trasformarsi in un simbolo di vittoria... Vittoria su che cosa? Ma in quel quadrato nero sullo sfondo misero della tela io non vedevo l’incantesimo dei colori». Qui, in fuga, c’è tutto Chagall: in quel rifiuto del terrorismo ideologico concettuale, del credo avanguardistico, in quell’abbandono al puro colore formante, sanguinante. «I colori squillanti si ribellavano nel cielo». I tetti si scoperchiano, vola il carretto del vecchio padre taciturno, che incarna il ruolo, da ex voto chassidico atterrato, del profeta Elia, le teste incominciano a ruotare come macine da mulino. Lo si vede bene in quel minimo autoritratto d’introibo, la testa-pianeta, che quasi non ha volto. Perché lo sguardo avido gira come un periscopio, che ha perduto la bussola, e sfibra la sua ricorrente fisionomia androgino-chapliniana.
Chagall, in esilio permanente. Bulimico di nostalgia perenne, anti-ideologico, ma spesso profetico, gogoliano (illustra le sue Anime Morte per Vollard, così come le Favole di La Fontaine, qui ben rappresentate) amante della musica più che della politica (soffitto per l’Opéra di Parigi e bozzetti per opere di Ciakovskij e Stravinskij) mentre le Avanguardie promettono la Vittoria del Sole, lui vede diventare lilla i suoi cieli. Parte da Bakst, rasenta Larionov e il Fante di Quadri, s’impregna dei colori degli altri (da Monticelli a Dufy: il solo che gli rimane fedele) passa, unico, accanto a Picasso, rimanendone indenne (al massimo propone un suo «cubismo sentimentale». E se rubassimo per lui l’espressione che Savinio usò per Berg? Il suo è uno strano, espressionistico «verismo dell’anima».
Marco Vallora, La Stampa 17/9/2014