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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

LA SFIDA CONTRO L’APARTHEID DEI “LAVORATORI DI SERIE B”

Matteo Renzi anche questa volta non le manda a dire, al Parlamento ma soprattutto alla sinistra interna: sulla riforma del lavoro si va avanti senza incertezze. Al termine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà rivoluzionato, perché «non c’è cosa più iniqua che dividere i cittadini tra quelli di serie A e quelli di serie B», perché va superato un «mondo del lavoro basato sull’apartheid». Il problema non è il reintegro legato all’articolo 18 - ha spiegato ieri il premier in Parlamento - «ma la semplificazione della giungla delle regole», che oggi sono 2000 quando invece ne basterebbero 100 e che riguarda anche i trattamenti molto diversificati che cambia da tribunale a tribunale. C’è anche un modello di riferimento: quello danese.
L’idea è quella di disporre già dal 2015 di «tutele univoche e identiche». Per questo il premier vuole cambiare gli ammortizzatori rendendoli più semplici e finanziare il tutto con le risorse recuperate attraverso la spending review. Pronto a intervenire anche per decreto se il Parlamento non lavora.
L’effetto apartheid
«Questo è un mondo del lavoro basato sull’apartheid - attacca Renzi -. Per questo dico a quella parte di sinistra più dura rispetto alla necessità di cambiare le regole del gioco sul lavoro che, per come la vedo io, la sinistra è combattere le ingiustizie, non difenderle». Il premier, quindi snocciola una serie di esempi: «Tu sei una mamma di trenta anni, sei dipendente pubblica o privata hai la maternità, sei una partita Iva non conti niente. Tu sei un lavoratore, stai sotto i 15 dipendenti, non hai alcune garanzie, stai sopra, sì. Tu sei uno che ha diritto alla cig, dipende - ha concluso - non è uguale per tutti, dipende dalle modalità, di quella ordinaria, straordinaria, in deroga». Eccolo il caos al quale si cerca di mettere ordine.
I numeri del fenomeno
Su 22.446.000 lavoratori, tanti ne stimava a fine luglio il rapporto trimestrale dell’Istat, i «garantiti», quelli che stanno in «serie A» insomma, sono meno della metà. Tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale parliamo di 14,56 milioni di lavoratori (di cui 11,98 milioni a tempo pieno). Ma di questi almeno 4 milioni e 108mila, il 34,52% dei lavoratori full time, lavora in imprese con meno di 15 dipendenti e quindi come tali vanno classificati di B perchè non beneficiano delle tutele legate all’art. 18. Immaginando una quota analoga anche tra i part-time alla fine in prima classe ne restano «appena» 9 milioni e 491mila.
Tutto il resto è seconda classe, effetto «apartheid», come lo chiama Renzi. Serie B, se non peggio. Dai 3 milioni e 144mila disoccupati (compresi gli 891mila giovani) ai 3,5 milioni di inattivi (su un totale di 14,3) che vorrebbero/potrebbero anche lavorare ma non trovano o non cercano più.
Lo spartiacque Articolo 18
La natura del contratto e le condizioni di accesso al posto di lavoro determinano la prima frattura. L’articolo 18 segna un ulteriore spartiacque. Interessa infatti appena il 3% delle imprese, 156.500 su un totale di 5,25 milioni, eppure tutela il 65,5% dei dipendenti. Dunque 9,5 milioni su 22,4 sono a tutti gli effetti i garantiti, e gli altri?
Innanzitutto ci sono 2,364 milioni di contratti a termine (e tra questi 699mila rapporti part time). Poi vanno considerati i lavoratori indipendenti, le partite Iva, ma anche commercianti e artigiani: in tutto sono 5 milioni e 518mila, di cui 836mila hanno una occupazione a tempo parziale. Per capirci, sono così tanto di «serie B» che loro il bonus da 80 euro ancora se lo sognano. Infine ci sono 394mila persone classificate come collaboratori, i cococo di una volta ora diventati cocopro. In molti casi contratti che dovrebbero essere a tempo indeterminato camuffati da finti contratti di collaborazione. Ma se guardiamo trattamenti economici e condizioni, da Nord a Sud e tra uomo e donna si creano altre classi e sottoclassi, con una possibilità infinita di combinazioni.
@paoloxbaroni
Paolo Baroni, La Stampa 17/9/2014