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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

“SETTANT’ANNI, È ORA DI FARE IL REGISTA”

[Intervista a Reinhold Messner] –
Settanta. Come l’anno del Novecento in cui la sua vita svoltò. Oggi Reinhold Messner, il «re degli ottomila», il primo a salire sulle quattordici vette più alte del pianeta, compie 70 anni. Compleanno d’arrampicata con alcuni amici. Là nel gruppo delle Odle dove cominciò nel 1949 con il padre Joseph, su quei denti dolomitici che chiudono l’orizzonte della verde vallata di Funes. E sono le guglie in cui salì da ragazzo con il fratello Günther. Torna con quel nome caro il 1970, quando i due fratelli Messner, unici italiani di una spedizione austro-tedesca, stupirono il mondo attraversando il Nanga Parbat, 8125 metri. Günther morì in discesa fra i ghiacciai della parete Diamir, ghermito da una slavina. E Reinhold rimase cinque giorni a cercarlo in quel dedalo candido mai prima di allora calpestato dall’uomo. Il suo risveglio in una casupola fu dolore e rinascita.
Il Nanga Parbat, la montagna salita per primo e da solo dall’alpinista che fu il «faro» per Messner, l’austriaco Hermann Buhl. Lo «stile alpino», leggero e senza portatori, cominciò quel giorno in Himalaya e Messner ne diventò il miglior interprete. Nel 1978 aprì l’era del «senza ossigeno» quando con Peter Habeler arrivò in cima all’Everest (8848 metri) rinunciando alle bombole e smentendo i neri presagi dei fisiologi. Lo stesso anno in cui da solo risalì il versante Diamir fino alla vetta del Nanga Parbat. Vita di primati. «In fuga da un mondo addomesticato», scrive nel suo ultimo libro, «La vita secondo me» (Corbaccio). E si definisce per questo un «disadattato».
E adesso?
«Sono sempre sulle tracce della natura, sempre. Sto finendo l’ultima sede del mio viaggio nel costruire musei, quello di Plan de Corones, progettato da Zaha Hadid. Quindi mi sentirò “libero” e siederò sulla seggiola da regista».
Scusi?
«Già voglio fare cinema, documentari sulla montagna. Non so farlo come operatore ma come regista credo di sì. È il modo che scelgo per raccontare ancora la montagna. L’ho fatto arrampicando, scrivendo libri, ideando musei, adesso mi dedico al racconto per immagini filmate. So che qualcuno è scettico in proposito, io certo no. Riparto così per le montagne, non programmo salite agli Ottomila, né traversate nei deserti. Sarei un pazzo e finirei come un turista sulle vie ferrate».
Nel suo 60° compleanno provò a tornare in vetta al Nanga Parbat.
«No, quell’avventura fu nel 2000. A 60 anni attraversai a piedi il deserto del Gobi».
L’alpinismo di oggi?
«È uno sport, bellissimo, ma uno sport. È diviso tra l’arrampicata indoor e le vie preparate, tempestate di chiodi dove non c’è il rischio di cadere, dove il concetto alpinistico dell’esposizione non esiste più. Poi c’è il turismo d’alta quota, quello da centomila dollari per arrivare in vetta all’Everest. Non critico, non giudico, non c’è giusto o sbagliato, dico soltanto che tutto ciò è altro dall’alpinismo».
La montagna soffre. È spopolata, non più coltivata e c’è il turismo.
«Questa è una questione molto più seria rispetto all’alpinismo perché c’è in ballo la vita di chi la abita. In Alto Adige siamo riusciti a trovare un equilibrio grazie anche ai masi, cioè a territori agricoli non divisi. L’agricoltura alpina è da tutelare. Strutture e impianti per il turismo devono avere il limite dei boschi, al massimo 2400 metri. Oltre c’è l’alpinismo con le pareti che devono essere lasciate come sono, non più attrezzate. Quanto si è fatto e si fa è costoso e rovina l’ambiente».
C’è un grande ritorno in montagna, si corre sui sentieri di tutte le Alpi.
«Già, perché tutto è misurato. Io dico che esiste l’alpinismo delle cifre e quello delle piste, cronometro e vie tracciate. È un modo di affrontare la montagna da sport misurabile, da città insomma. Si va soltanto per trovare la propria misura, mentre la montagna è bellezza, lentezza e silenzio».
Tutto ciò ha a che fare con il tempo in cui lei non crede.
«Non esiste, è una convenzione umana. Diecimila anni fa gli uomini vivevano per un trentennio, non arrivavano certo a 70. Ma in realtà la loro vita durava molto più della nostra perché non dividevano il tempo».
Lei è stato europarlamentare nel 1999. Che ne pensa della politica di oggi?
«In Italia credo che Renzi debba concretizzare, ma ci vorrà un decennio per una svolta. Il nostro Paese ha perso tante posizioni, pensi al turismo, eravamo i primi, ora siamo scesi al decimo posto. Nel mondo manca una governance e la Cina è pronta alla leadership, ma a livello economico, non ha interesse a portare modelli sociali o politici come la ridicola idea statunitense di esportare la democrazia».
Enrico Martinet, La Stampa 17/9/2014