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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

OPERAZIONE DOMUS AUREA


SONO PASSATI QUATTRO ANNI. Era il 2010. «Quel marzo, niente aveva lasciato presagire quanto stesse per accadere», racconta Fedora Filippi, direttrice scientifica della Domus Aurea. Il cellulare squillò alle 8.30. Presto per informazioni di servizio, troppo presto per una chiamata di cortesia. «Andarono senza preamboli al dunque, mi sillabarono l’entità del disastro: “crol-lo”. Quando il taxi mi lasciò all’ingresso del Colle Oppio fu l’agitazione dei vigili del fuoco a monopolizzare la mia attenzione. Ricordo di essere rimasta a lungo, in piedi, di fronte a loro: non potei fare altro che seguirli con sguardo ansioso mentre continuavano a cercare, con le unità cinefile. Non capii immediatamente: avevano fretta di escludere che qualcuno fosse rimasto tra le macerie».
Il giardino sulla reggia neroniana era frequentato all’epoca da un’umanità variegata che si sveglia di buonora: amanti dello jogging, anziani con i cani, senzatetto. Archeologi e tecnici, no. Era martedì, sarebbero arrivati dopo sul parco del Colle Oppio, la quinta monumentale inaugurata sullo sfondo del Colosseo, il 21 aprile 1936, da Antonio Muñoz. È lì in basso, nascosta dalla greve coltre del colle, che la Domus Aurea riposa senza pace: la terra non le è lieve.
Non lo è dal 104 d.C., quando Apollodoro di Damasco iniziò a costruire sulla sua schiena la terrazza delle Terme di Traiano, trasformando la villa di Nerone, spogliata di tutti i materiali preziosi, nella loro base interrata. Tutte le aperture verso l’esterno furono sigillate. Il piano superiore venne rasato all’altezza dei pavimenti; quello inferiore fu rinforzato con muri che ripartirono gli spazi più ampi, creando una serie di gallerie coperte con volte a botte. Furono proprio due di queste a cedere nel 2010, lasciando una voragine di 60 metri quadrati.
«Ero stata nominata responsabile del monumento, chiuso al pubblico e commissariato dal 2006, da pochi mesi», ricorda la direttrice. «I progetti predisposti dal commissario non erano stati ancora avviati e, fino a quella mattina, la mia soprintendenza aveva proceduto con opere di manutenzione, accompagnate dalle analisi diagnostiche della situazione conservativa. Il crollo fu un punto di non ritorno, uno shock, un invito all’azione con un piano deciso di interventi».
Per fortuna nessuno rimase intrappolato tra i detriti e le volte collassate, prive di decorazioni, non appartenevano alla Domus Aurea.
La crisi si trasformò orgogliosamente in opportunità, e quell’inatteso 30 marzo divenne il ground zero da cui rialzare la testa. «Fare diagnostica non era più sufficiente», continua Filippi.
«Bisognava trovare la forza per mettere in atto il consolidamento. Paradossalmente la dinamica del crollo ha finito per aiutarci, perché ha reso manifesta la fragilità di murature spogliate dei laterizi e inadeguate a sostenere la mole di un giardino esorbitante». Nei giorni seguenti, l’équipe dell’archeologa ha ristretto il campo dei nemici della Domus Aurea a quattro principali indiziati: la sua debolezza strutturale; il peso del parco e i danni inferti dalle radici degli alberi; le infiltrazioni d’acqua.
Il sopra e il sotto, nell’organismo Domus Aurea, sono inscindibili: questa la visione impugnata dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. «Per la prima volta stiamo agendo con piglio radicale, sul parco e nella Domus. Non smetteremo di lavorare finché non l’avremo salvata una volta per tutte», sostiene Filippi, che aggiunge la possibilità che un pubblico ristretto (per ragioni di sicurezza), possa presto visitare i cantieri. «Li apriremo gradualmente con iniziative mirate. Per i visitatori sarà un’occasione irripetibile, non solo per immergersi nel monumento, quanto soprattutto per rendersi partecipi del suo recupero. Da due anni, intanto, il blog Il cantiere della Domus Aurea [http://archeoroma.beniculturali. it/cantieredomusaurea] prova a restituire alla collettività quello che per il momento le è ancora fisicamente precluso».
Sul volgere del secolo passato, la ieratica inaccessibilità della Domus avvolse nel suo confortevole abbraccio la dignità di personaggi soli al cospetto di cause di forza maggiore. Il 15 ottobre 1998 – nell’ordine – Romano Prodi salì al Quirinale, scese nella Domus Aurea, dove lo ricordano curioso e sereno, e raggiunse rassegnato la Camera per indicare Massimo D’Alema nuovo primo ministro. L’anno seguente lo scrittore Salman Rushdie, colpito dalla fatwa per la pubblicazione dei Versetti Satanici, fu condotto in visita nella più impenetrabile delle meraviglie, capace di proteggerlo alla stregua di una guardia del corpo millenaria. Rushdie si innamorò della villa di Nerone e nel maggio del 2005 chiese e ottenne di tornarvi, con la moglie e i capelli ormai radi, per verificare l’effetto dei timidi restauri allora in corso, «perché Roma non è solo una città, è anche un’idea».

NEL 2014 QUEL PROMETEICO GENIUS LOCI appare meno triste, meno solitario, meno finale. Il silenzio è setacciato dal brusio concreto degli addetti ai lavori. L’archeologa Elisabetta Segala, tra le accompagnatrici di Prodi e Rushdie, contempla ammirata le decorazioni sulle pareti e sulle volte della Domus, osservando i restauratori che infondono loro nuova vita. «Se le abitazioni e gli affreschi di Pompei sono eccezionali, nella pancia del Colle Oppio possiamo passeggiare all’interno dell’unica residenza imperiale sopravvissuta, e la percorriamo in volo sulle ali del mito», dice. Achille vestito da donna tra le fanciulle di Sciro, Ulisse che acceca Polifemo, Ettore mentre prende commiato da Andromaca. Nerone, ispirato dal fasto delle ville campane, osò riproporne una, più grande e più bella di quante se ne fossero mai viste, nel cuore stesso dell’impero. «Al di là dell’epica, quell’architettura parlante voleva lanciare un messaggio politico», continua Segala. «Nerone voleva instaurare una monarchia assoluta simile a quelle conosciute in Oriente. Sul Colle Oppio, di quell’immenso edificio sopravvive il padiglione. Anche se non è più possibile percepirne la comunione spettacolare con il Palatino, il Celio e il lago, allora disteso dove poi sarebbe sorto il Colosseo, quello che resta è sufficiente per afferrare la magnificenza di una dimora che spinse il suo nobile proprietario a proclamare: “Finalmente una casa degna di un uomo”».

RISANARE UN MONUMENTO COSÌ IMPONENTE è un’impresa titanica, che non può concludersi prescindendo da un restyling integrale del giardino, alleggerito di oltre la metà del suo volume. Gabriella Strano, architetto paesaggista, ha completato la mappatura delle alberature esistenti, localizzandone i danni. «Nessuna alternativa. Tocca scegliere: o la Domus, o le piante», taglia corto Federa Filippi. All’inizio bisognerà togliere la vegetazione, dopo la terra, documentando nei dettagli l’intera fase di scavo. In seguito sarà necessario sostituire all’attuale giardino, alto fino a tre metri e mezzo, uno strato più basso, fornito di un sistema integrato di protezione che sappia difendere le strutture antiche dal clima.
Gli archeologi non possono smantellare la naturale coperta di terra del Colle Oppio senza prendere precauzioni, altrimenti distruggerebbero gli affreschi della reggia, che hanno reagito nel corso dei secoli in modo da compensare le sollecitazioni esterne. Se venissero scoperchiati gli ambienti, che si sono adattati a un’umidità del 90 per cento, l’improvvisa evaporazione dell’acqua contenuta nelle murature e negli intonaci causerebbe il loro veloce e irreversibile deterioramento.
Il sistema integrato di protezione progettato dalla soprintendenza dovrà pertanto isolare la Domus dal giardino senza alterare il microclima sottostante: non una guaina a impermeabilizzazione totale, quindi, ma un’infrastruttura sostenibile a quattro strati. In profondità, ciottoli di polistirolo espanso trattenuti in gabbie convoglieranno le acque provenienti dal drenaggio superficiale attraverso canaletto e pendenze di livello. In caso di innalzamento della temperatura o di inaridimento, un sistema di tubi metterà in circolo dell’acqua per riequilibrare i valori.
«Il nuovo assetto del giardino presenterà tracciati e forme che rimanderanno al disegno geometrico dei giardini romani descritti da Columella e Plinio», chiarisce Gabriella Strano. «Queste linee, che suggeriranno all’osservatore le architetture ipogee, sfrutteranno strutturalmente la necessità di canalizzazione delle acque piovane. Il nostro giardino tornerà un luogo per il passeggio e lo svago, così come anticamente avveniva per tutte le aree intorno alle terme. Il parco, oggi degradato, sarà restituito più bello e pratico alla cittadinanza. Contemporaneamente permetterà di nuovo la lettura archeologica del colle, disturbata dal 1936 dall’asse di Via del Monte Oppio, che taglia in due le Terme di Traiano».
DA FEBBRAIO, la terapia sperimentata in laboratorio viene finalmente messa alla prova nel cantiere pilota aperto presso il quartiere occidentale della Domus, alla cui realizzazione concorrono tutte le professionalità del gruppo di progettazione. Mentre un tendone provvisorio protegge gli scavi, permettendo di portare in superficie le strutture murarie e mettere in posa il sistema integrato di protezione, il fisico Sandro Massa monitora passo dopo passo il clima negli ambienti sottostanti, dove peraltro non sono presenti pitture. «L’area indagata, pari a 730 metri quadrati, sovrasta due gallerie traianee, che frazionarono l’originario spazio scoperto del peristilio occidentale della Domus per fungere da sostegno, una volta riempite di terra, alle terme. A sud il cantiere si prolunga fino a comprendere l’innesto delle gallerie con la sala della Volta delle Civette e la sala della Volta Gialla, quella firmata da Pinturicchio», spiega Elisabetta Segala.
Lo scavo sta inoltre permettendo di approfondire le conoscenze sul destino dell’area nell’Alto Medioevo, quando la terrazza divenne una necropoli per gli umili abitanti del colle, prima di essere trasformata in suolo agricolo. «Abbiamo riportato alla luce otto tombe a fossa ricavate semplicemente scalpellando il massetto traianeo: la base di cocciopesto messa in opera da Traiano a partire dal 104 d.C. per coprire la terrazza delle sue terme», continua l’archeologa. «In incisioni successive dobbiamo invece riconoscere le tracce di attività agricole che hanno danneggiato almeno uno degli scheletri deposti, considerando che gli altri sono stati rinvenuti in connessione anatomica».

NEL 2005 LA DOMUS era stata chiusa a causa di gravi infiltrazioni d’acqua; riaperta nel gennaio 2006, venne quindi richiusa nel 2008 per percolazioni lungo le pareti. Con l’ordinanza ministeriale del 25 aprile 2012 il monumento, che era stato commissariato, è tornato completamente sotto la gestione ordinaria della soprintendenza, che ha assunto anche la responsabilità degli interventi non effettuati dal commissario.
Ottimizzando uno stanziamento di quasi 19 milioni – tra i fondi pubblici per il risanamento interno – lavorano incessantemente al recupero circa 70 persone, tra tecnici delle imprese edili e di restauro e specialisti: archeologi, restauratori, architetti, ingegneri, fisici, chimici, biologi, botanici, agronomi. Sembrerebbero tanti, se quel che resta del padiglione della reggia non contasse ben 150 stanze, sviluppate per 240 metri lungo un fronte affacciato sulla valle del Colosseo. La decorazione di affreschi e stucchi su pareti e volte, alte in media 11 metri, copre circa 30 mila metri quadrati: l’equivalente di 30 Cappelle Sistine.
«Il cronoprogramma per la realizzazione del sistema integrato di protezione e del giardino sostenibile prevede sette fasi lavorative distribuite in quattro anni», sottolinea la coordinatrice del progetto. «Avendo stimato il costo totale in 31 milioni di euro, sappiamo che per completare il progetto entro il 2018 sarà necessario garantire un finanziamento annuale di 7-8 milioni. Ciò sarebbe certamente possibile, come evidenziato dal ministro Franceschini, se potessimo contare sull’intervento di mecenati privati, favoriti dai vantaggiosi sgravi fiscali concessi dall’Art Bonus (un sistema di incentivi fiscali per i privati che decidano di fare donazioni per il restauro di un bene culturale: prevede un credito d’imposta del 65% in tre anni, n.d.r.)».
Il sistema integrato di protezione è come il tetto di una casa: qualora mancasse, si perderebbe tutto il lavoro condotto all’interno con tanta fatica e ingenti investimenti pubblici. E se non si farà avanti alcun mecenate i tempi si allungheranno in modo notevole. Questo è il problema: non se, ma quando sarà pronto il nuovo giardino e, di conseguenza, salva la Domus.
«Mi chiedo spesso quale profonda fonte alimenti il mito della Domus Aurea», ragiona Filippi. «Al solo nominarla, ne subisce il fascino anche chi non l’ha mai vista. È un monumento unico: di anfiteatri ce ne sono tanti, di Domus Aurea ce n’è una sola. Forse è sottovalutata; certo era poco conosciuta quando davo esami all’università e, sui manuali, se ne parlava poco. Non esiste ancora una pubblicazione organica e circolano diverse ricostruzioni in tre dimensioni, ma non sempre sono aderenti alla realtà».
Il mito è certamente legato alla fama ambigua di Nerone; l’essere diventata ipogea non può che averne amplificato il mistero. Chi entra subisce un forte effetto di spaesamento, e non è facile capire che all’origine non appariva così, che era piena di luce riverberata dai marmi colorati, che la sua architettura sfruttava un gioco di rimandi tra l’interno e l’esterno. Nelle viscere del Colle Oppio, anche la debole illuminazione artificiale trae in inganno. Per ridurre al minimo la possibilità di sviluppo di alghe, funghi e licheni, sono stati scelti LED a luce bianca che emettono soltanto 35 lux per sala. È indispensabile il piacere della fantasia per intravedere nel buio del XXI secolo il barocco dorato preteso da Nerone, che nulla doveva invidiare alle prospettive illusionistiche create nel Seicento dal Borromini. A restauro compiuto, minori sforzi saranno necessari ai visitatori per lasciarsi cullare dalla sindrome di Stendhal. La scelta fondamentale consiste nel voler rigenerare la funzione architettonica del monumento, oggi privata della sua componente essenziale: i rivestimenti in laterizio, asportati nei secoli in quanto facilmente riutilizzabili, puntualizza Federa Filippi. «Stiamo quindi ricostituendo i muri così com’erano all’epoca di Nerone, usando mattoni con caratteristiche identiche a quelli impiegati anticamente».
La soprintendente Mariarosaria Barbera non nasconde l’orgoglio. «La Domus Aurea è l’oggetto del desiderio: il monumento antico più citato e meno conosciuto. Le fonti la definiscono rus in urbe, campagna in città. Il nuovo giardino fornirà una soluzione strutturale di lunga durata che finalmente recupererà il pensiero degli architetti di Nerone, ricomponendo l’interazione fra la natura del Colle Oppio e l’architettura a esso sottoposta: uno dei progetti più ambiziosi che mente umana abbia mai immaginato e realizzato», dice.
Il cosiddetto “ambiente 41” rappresenta l’esempio migliore per afferrare la portata delle sfide risolte dai restauratori. Prima dell’intervento, pericolante a 12 metri di altezza, la volta versava in un grave stato di deterioramento dovuto soprattutto alla percolazione dell’acqua, favorita dalla presenza di radici di lecci penetrate dal giardino tra l’intradosso e la superficie decorata.
«Per salvare gli affreschi, conservati solamente alle due estremità della volta per un totale di circa 30 metri quadrati, dovevamo procedere con il distacco: una scelta tanto sofferta quanto obbligata», racconta Maria Bartoli, responsabile delle opere di restauro pittorico. «Nell’intento di preservare l’intera decorazione fino ai minuti frammenti della guarnizione a foglia d’oro, abbiamo deciso di applicare un prodotto isolante: il ciclododecano, un idrocarburo completamente reversibile per sublimazione, che quindi è l’interfaccia ideale da stendere tra la superficie pittorica e le resine utilizzate per far aderire il velatino di cotone».
Facendo di necessità virtù, è stata una procedura innovativa a suggerire la soluzione opportuna, ricorda la restauratrice. «Abbiamo applicato il ciclododecano a freddo. I bendaggi hanno tenuto e le sezioni distaccate con successo sono state trasferite nell’ambiente vicino, dove identiche condizioni risparmieranno ai materiali, durante il restauro, uno stress di adattamento. Completato il risanamento strutturale della volta, procederemo al ricollocamento».
Non sarebbe stato neppure possibile cominciare a intervenire se prima non fosse stata consolidata la pellicola pittorica, ridotta a polvere che viene catturata dai polpastrelli al solo sfiorarla. Alessandro Danesi, l’esecutore del delicato lavoro, ha impiegato oltre due mesi in cicli di aspersione di nanocalce in alcol isopropilico. «Sul ponteggio, con 60 metri cubi d’aria, la saturazione raggiungeva entro sette minuti livelli insostenibili dalle semplici maschere antigas», spiega il restauratore. «Per garantire il ricambio d’aria, abbiamo perciò montato un sistema di aspirazione e filtraggio collegato alla stanza contigua, stando ben attenti a non creare correnti che stravolgessero i parametri microclimatici. Già la sola presenza di due persone nell’ambiente, infatti, fa crescere la temperatura di un grado l’ora, con la conseguente esplosione di funghi e la necessità di continui trattamenti biocidi. Almeno, a conti fatti, con due gradi in più la nanocalce è parsa far presa meglio».
Per il momento, sui 30 mila metri quadrati di superfici decorate i restauratori stanno procedendo all’estrazione dei sali solubili e alla rimozione dei depositi terrosi. Per il restauro integrale dei dipinti, tuttavia, bisognerà attendere la sistemazione definitiva del giardino: inutile, fino ad allora, rimuovere anche il calcare, che inevitabilmente finirebbe per riformarsi.

LA GIORNATA LAVORATIVA, negli umidi ambienti della Domus, termina alle 16.30. Cinque minuti prima gli operai delle imprese edili imboccano dai rispettivi settori di competenza i diversi corridoi, per ritrovarsi ordinatamente nella Sala Ottagonale. La stanza, rivoluzionaria rispetto alle piante rettangolari che caratterizzano gli altri ambienti, era il centro simmetrico del padiglione sul Colle Oppio, allora affacciato su boschi ricchi di animali selvatici e sullo stagnum Neronis. Al suo interno, forse, erano collocati gli originali bronzei del Galata morente e del Galata suicida, saccheggiati dall’acropoli di Pergamo nel 64 d.C. Ora, per l’ampiezza e la vicinanza con l’uscita, è diventata il centro operativo ipogeo delle ditte edili, che vi depositano attrezzature e materiali. Ogni pomeriggio, prima di tornare a casa, gli operai brandiscono il compressore a mo’ di pistola e a colpi d’aria spazzano via la polvere accumulata sui vestiti. Un denso pulviscolo volteggia in controluce, ascende verso il grande occhio, da dove si diffonde un chiarore soffuso, e ravviva la monotona luminosità della Domus. Compiuto il loro rito quotidiano, si avviano verso l’uscita cambiando direzione, attraverso la linea sghemba di una delle gallerie traianee.
Nel grande criptoportico invece, alle spalle della Sala Ottagonale, la luce non filtra più dalle bocche di lupo previste dagli architetti Severo e Celere sulle reni delle volte. Raggi di sole che altrove colavano sulle pareti come miele, riflessi dalle applicazioni in foglia d’oro e dal fasto dei marmi preziosi, qui piovevano in chiaroscuro, quasi a disegnarle un’anima.

LA DOMUS SEMBRA DOTATA DI VITA PROPRIA, insiste Federa Filippi. «È come un organismo vivente, enorme e buio, che reagisce e ti obbliga a capire con i rilievi, la documentazione, gli interventi. A mano a mano la stiamo ricomponendo, non solo materialmente: è la sua dignità ciò che vogliamo restituirle. Ha avuto molte vite, è rimasta unica: questa è la sua qualità. Fu riscoperta alla fine del Quattrocento, da artisti che entravano nei grottoni e disegnavano tutto quello che vedevano con i piedi poggiati su strati di terra, sentendosi giganti sulle spalle di giganti, privilegiati come lo siamo noi oggi. La Domus diventò allora uno straordinario mezzo di comunicazione tra l’antica cultura classica e il Rinascimento, per essere traghettata nella modernità».
Nel maestoso criptoportico ancora leggiamo la firma di Giovanni da Udine, l’allievo di Raffaello che, nel 1519, avrebbe decorato con grottesche le Logge Vaticane. Qualche metro più in basso, dove Giovanni non arrivò mai, i restauratori hanno aperto sparuti tasselli di pulitura: saggi per verificare scientificamente il risultato atteso al termine del restauro e sacrosanto anticipo di paradiso per i propri occhi.
«La Domus reclama ormai una terza vita», sussurra la direttrice, cercando conferma alle sue parole nell’incanto del grifone nero dalle ali rosse che addita con l’indice. «E noi conserveremo la sua essenza e progetteremo il suo futuro senza tradirla, perché lei non potrà mai essere buttata nel tritacarne di un turismo senza occhi e senza orecchie. Il suo fascino, non solo il suo aspetto, sia patrimonio di un’umanità che sappia essere ancora l’artefice del proprio destino».