Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

MA PRIMA DEVE FARE LE RIFORME ISTITUZIONALI

Ha fatto molto bene ieri Matteo Renzi, nel discorso alle Camere sui 1000 giorni, a ribadire l’assoluta priorità delle riforme istituzionali. Sbaglia profondamente, infatti, chi pensa che aver approvato la riforma del Senato in prima lettura sia stata una perdita di tempo e che sarebbe stato meglio fin da subito occuparsi di temi economici.
O ancora chi ritiene che la nuova legge elettorale possa aspettare. Aspettare cosa, poi?
A chi ha la memoria corta è bene ricordare che questa legislatura è nata per fare le riforme istituzionali, dall’accordo informale ma molto chiaro durante il governo Monti (i tecnici avrebbero dovuto occuparsi di economia e il Parlamento delle istituzioni) alla nomina dei saggi di Napolitano, al forte monito dello stesso Napolitano ai partiti che (forse senza aver capito bene) si spellavano le mani per gli applausi, per non parlare degli ultimi 30 anni di promesse non mantenute, discussioni futili, progetti per superare il «doppione inutile» caduti nel vuoto. E non c’è solo la necessità di oliare il processo decisionale. C’è anche quella di ridurre i costi della politica. Il fatto che il Senato non sia più elettivo (insieme alle province) è un primo colpo di scure alle dimensioni del ceto politico e una risposta precisa agli anni violenti dell’antipolitica. Segni, simboli e anticorpi che hanno smantellato la protesta grillina in men che non si dica. Come farà Grillo a sostenere al prossimo appuntamento elettorale che l’abolizione del Senato elettivo non è un abbattimento dei costi (inutili) della politica ma una «prova tecnica di autoritarismo»?
E poi la legge elettorale, che Renzi menziona come altra priorità, visto che siamo ancora sprovvisti di regole sensate per andare al voto, con un Parlamento espropriato e un sistema elettorale scritto di loro pugno da quattro giudici della Corte Costituzionale. D’altro canto pare di capire che Renzi non smani di anticipare il ritorno alle urne. Accanto alla carota della gestione unitaria del partito, appena consacrata con una generosa distribuzione di medagliette (di dubbia rilevanza) a tutte le correnti, il bastone del sistema elettorale pronto all’uso gli serve forse come minaccia verso i parlamentari più riottosi, proprio con l’intento di allungare l’orizzonte del governo e allargare il campo a tutto il set delle riforme economico-sociali.
Avendo ribadito con forza la priorità delle prime (quelle istituzionali, già delineate), Renzi si è già spostato sulle altre, e in particolare sul lavoro. Forse avrebbe preferito non impelagarsi – anche lui – nell’impossibile riforma dell’articolo 18. Prova quindi a spostare l’attenzione sul contratto unico a tutele crescenti e sulla universalizzazione di ammortizzatori uguali e semplici per tutti, cioè sulla parte rassicurante della legge delega piuttosto che sulla libertà di licenziamento (con il solo indennizzo) per tre anni (come vorrebbe Damiano) oppure per sempre (come vorrebbe Ncd). Su questo Renzi alza la voce dicendosi pronto anche ad agire per decreto, se ci saranno resistenze. Assai opportuna, poi, la notazione che non si debbano attribuire poteri taumaturgici al ridisegno delle regole, perché conta molto di più una politica industriale seria, modellata sulle effettive esigenze delle imprese in sofferenza.
Non sarà facile per Renzi realizzare tutto. Anche perché in Europa le cose non sono cambiate granché. La nuova Commissione non è così compassionevole come si sperava. Basta vedere come il socialismo solidale del povero Moscovici sia stato anestetizzato alla radice da due vicepresidenti iperconservatori con deleghe pesantissime (euro, lavoro e investimenti), come Katainen e Dombrovskis, che definiamo falchi del rigore per essere lievi. Né pare un buon segno il fatto che i nuovi commissari siano tutti ex ministri o ex primi ministri, nella misura in cui l’Europa continua in questo modo a sposare in pieno un approccio intergovernativo, basato cioè sugli interessi e la forza degli Stati nazionali (con molti vantaggi per la Germania), piuttosto che su una visione sovranazionale tesa a difendere gli interessi di tutti. Ci vorrà uno sforzo ciclopico per portare a casa buoni risultati, per di più davanti a un Parlamento che si intorcina sulle nomine dei giudici costituzionali, tra candidature di un vecchio impero decadente. Il discorso di ieri, però, con anche l’azzardo schroederiano di non avere paura di perdere le elezioni, se si traduce in obiettivi operativi chiari, se finalmente porta a percorsi intellegibili di attuazione, indica una direzione giusta.
twitter@gualminielisa
Elisabetta Gualmini, La Stampa 17/9/2014