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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

LA NOTTE BOLLENTE DEL DUCE E DELLA CONTESSA SLANDRONA


Pubblichiamo ampi stralci del capitolo «Benito e la contessa» tratto dall’ultimo libro del giornalista e scrittore nonché firma di punta di Libero Giampaolo Pansa Eia eia alalà. Controstoria del Fascismo (Rizzoli, pp. 378, euro 19,90), in libreria da oggi. Dopo Sangue, sesso e soldi e Bella ciao, un nuovo avvincente capitolo a metà tra il romanzo e la rievocazione storica della Controstoria d’Italia, che inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922 e termina nel 1946.

Una sera dell’aprile 1921, la Rosa mi chiese: «Hai letto i giornali di ieri?». Borbottai: «Per niente. Non ho letto quelli di ieri e non leggerò neppure quelli di domani». Stupita, lei domandò: «Perché non li
leggi? La tua famiglia ha una tenuta agricola importante ed è bene essere informati su quel che accade in Italia. Spiegami perché non ti interessa saperlo».
La risposta mi venne naturale poiché rispecchiava il mio stato d’animo di quei mesi: «I giornali mi danno molta ansia. Raccontano soltanto fatti di violenza. Fascisti che assalgono socialisti, socialisti che assaltano fascisti. Spedizioni punitive, aggressioni feroci, morti e feriti da una parte e dall’altra. Mi sono sciroppato tre anni al fronte. E di gente ammazzata ne ho vista troppa. Adesso vorrei vivere in pace. Mi sento un fascista, ma non di quelli maneschi. Ma per il resto ho un solo desiderio».
«E quale sarebbe?» mi chiese Rosa. Le replicai: «Godermi la vita e passare qualche sera in pace accanto alla donna che mi piace più di tutte: una maestra elementare di Mortara, una signora sui trent’anni, intelligente, generosa, dolce e sgenata, pronta a qualsiasi porcheria...».
Lei scoppiò a ridere, poi mi provocò: «E se la signora maestra si fosse stancata e non volesse più concederti le sue grazie, che cosa faresti, caro Edoardo?». «Mi sparerei un colpo di revolver alla tempia, ma prima ammazzerei te!». La Rosa finse di rabbrividire: «Caspita, come sei drammatico stasera! Ma la tua maestra è qui, sempre pronta a regalarti un’altra serata speciale». Quando la serata speciale fu conclusa, Rosa, da vera testarda, tornò sull’argomento dei giornali: «Se li avessi letti, sapresti che il governo Giolitti ha sciolto la Camera dei deputati e ha indetto le elezioni per il 15 maggio. Al voto si presenteranno anche i fascisti, capeggiati dal loro comandante in capo, Benito Mussolini, il direttore del “Popolo d’Italia”, un altro giornale che tu non leggi. E le mie spie mi hanno
detto che il grande Benito farà soltanto tre comizi. Uno di questi lo terrà qui da noi, a Mortara».
In realtà quello nel capoluogo della Lomellina non fu soltanto un comizio. Si rivelò una festa politica andata avanti per l’intera domenica 8 maggio 1921, più una nottata. Mussolini aveva scelto di recarsi nella piccola città per ringraziare i camerati che, in meno di due mesi, avevano saputo colorare di nero uno dei territori più rossi d’Italia.
Avrei dovuto esserci anch’io. Forni e lo stesso Passerone mi avevano invitato. Ma non volevo fare la comparsa in camicia nera. E me ne restai in cascina. A raccontarmi nei dettagli quel giorno speciale, con la solita malizia, fu la Rosa (...).
La cronaca della Rosa aveva al centro proprio il superuomo, il personaggio che le interessava di più conoscere. Partito da Milano, Mussolini era arrivato di buon’ora a Mortara, su un’auto sportiva molto potente, prestata da un industriale della città, ricco sfondato e fascista della primissima ora. Al volante c’era lui (...).
La Rosa aveva potuto osservare bene Mussolini, durante il discorso elettorale tenuto sul palco eretto in piazza Vittorio Emanuele II. E in seguito mi disse di essere rimasta colpita da due particolari importanti. Il primo era l’aspetto fisico di Benito: «Sono abituata a te che sei un signore alto e per questo lui mi è sembrato piccolo. Forse non arriva al metro e settanta, è stempiato, di pelo nero, il collo robusto, il mento sporgente, con gli occhi scuri a biglia sotto una fronte bassa. Descritto così potrebbe sembrare un tipo da nulla. In realtà mi è parso una pila di energia che dà una grande forza alla sua voce metallica e un nerbo speciale alla sua oratoria».
Allora rivolsi alla Rosa una domanda tra l’infantile e il volgare: «Ma tu ci andresti a letto con un uomo così?». Lei rise: «Non pensi proprio ad altro! Comunque la mia risposta è no, perché mi farebbe paura e non saprei dominarlo come mi riesce con te. Però credo che molte donne non si lascerebbero pregare troppo, anzi ci starebbero con molto entusiasmo. Infatti, l’altro spettacolo che mi ha sorpreso è la venerazione sensuale che traspariva in una quantità di signore e di signorine che si erano precipitate in piazza per ascoltarlo e, soprattutto, per vederlo da vicino».
La Rosa continuò: «E non erano soltanto loro a perdere la testa per il camerata Benito. Anche tutti i maschi in camicia nera gli offrivano un consenso assoluto. Come se gli dicessero: tu sei il nostro Padreterno e ti seguiremo sempre e dovunque, sino alla morte. Io sono una mezza donnaccia, ma non capisco questa esaltazione per un politico. Ho visto dei signori che sbavavano per toccarlo, neanche fosse una bella femmina. (...).
«Ma la vera sorpresa della giornata è stata un’altra: l’incontro tra Mussolini e la contessa Giulia Carminati Brambilla» mi spiegò Rosa. (...). Poi prese a descrivermi che cos’era accaduto.
Per cominciare, la contessa non era affatto una contessa. Si chiamava Giulia Mattavelli ed era nata nel 1891 a Lanzo d’Intelvi, in provincia di Como, dove il padre faceva il postino. La sua fortuna era di aver incontrato il conte Cesare Carminati Brambilla mentre lavorava da sarta in un negozietto di Milano. Il nobiluomo era stato ufficiale di cavalleria e aveva tre anni più della ragazza. Tra i due era nata una relazione bollente e Giulia aveva seguito il conte nel suo castello di Semiana, un paese sperduto nella pianura lomellina dove il Carminati aveva acquistato una vastissima tenuta agricola. (...).
Nel 1921, Giulia aveva trent’anni ed era al culmine della bellezza. Un volto da principessa pronta a cavarsi le mutande, bionda, formosa, un petto smagliante, l’incarnato roseo e soprattutto molto disinvolta. A farne le spese era il povero conte, un cornuto di prima grandezza. Ma lui era innamorato perso della morosa, pur sapendo che si comportava da slandrona. (...).
«Ho sentito parlare di questa signora» dissi. «Me l’hanno descritta come una puttana insaziabile...». (...).
Quella domenica di maggio, Giulia vide per la prima volta Mussolini. L’incontro avvenne all’albergo Tre Re durante il pranzo in onore del leader fascista. La contessa aveva ricevuto l’incarico di consegnargli una vistosa medaglia d’oro e gliela presentò con un sorriso da maliarda, strillando: «Questo omaggio è per il nostro alfiere!».
Mussolini non ringraziò né lei né i donatori. Ma aveva l’occhio lungo. E notò subito l’avvenenza e soprattutto l’atteggiamento sfacciato della contessa. Benito aveva un gran pratica di femmine e intuiva al volo quando una donna era pronta a concedersi senza metterla giù dura. Gli bastò poco per capire che la signora della medaglia era una di loro. (...).
«Conclusa la parte politica della domenica 8 maggio, alla sera ebbe inizio il capitolo mondano. Nel Teatro comunale di Mortara era previsto il Veglione Tricolore Italianissimo. (...).
Lì per lì Mussolini si era rifiutato di partecipare al veglione, spiegando che doveva ritornare subito a Milano per chiudere in tipografia il numero del “Popolo d’Italia” dell’indomani. Poi lo pregarono di fare almeno il primo ballo e gli presentarono una dama speciale: la contessa Giulia. E Benito non seppe resistere all’invito. (...).
Invece di ripartire per Milano, Mussolini spedì in redazione il fratello Arnaldo che l’aveva accompagnato a Mortara, poi tornò in teatro e ricominciò a ballare. «Sai con chi?» mi domandò la Rosa. E non attese la mia risposta: «Con la contessa Carminati Brambilla. Mettendo a disagio le tante dame che speravano di fare coppia con il gran capo. Andarono avanti così sino a mezzanotte. Poi entrambi sparirono.
«Che cos’era successo tra i due? È semplice: quello che accade di solito tra un maschio focoso come Benito e una signora di forte sensualità, accoppiata a una grande scaltrezza, quale era la contessa di Semiana. Fuggirono entrambi dal Teatro comunale, raggiunsero il vicinissimo albergo Tre Re e si fiondarono nella camera numero 5.
«Quello che avvenne dentro la stanza è facile da immaginare» continuò Rosa. «Ma qualcosa di più preciso l’ho appreso dalla cameriera dell’hotel, come ti ho detto, madre di un mio alunno. Un po’ di giorni dopo, mi ha raccontato allibita: “Signora maestra, lei non ha idea di come abbiamo trovato la camera numero 5! Siamo abituate alle coppiette danarose che passano una notte di bagordi al Tre Re, però non al caos che avevano combinato
Mussolini e la contessa Giulia. La stanza era sottosopra come se ci fosse passato un ciclone. Quei due avevano fatto l’amore persino sul tappeto e sopra la poltrona accanto alla finestra. C’erano tracce dappertutto, compresa una macchia di sangue. E nel bagno ho visto anche di peggio!”.
«La seduta d’amore di quei due durò poco più di un’ora» mi spiegò la Rosa. «Poi Benito e la contessa si ripresentarono al Teatro comunale e continuarono a ballare, sempre tra loro, sino alle tre di notte. Si comportavano senza pudore. Lei lo baciava e lui l’accarezzava come se fossero ancora al Tre Re. Così tutti compresero in che modo quei due avevano trascorso l’ora di latitanza. Ma nessuno fiatò. Soltanto dopo essersi sfogato, Mussolini si decise a ripartire per Milano».
In seguito si venne a sapere che quella di domenica 8 maggio 1921 non fu l’unica seduta amorosa tra Benito e la Giulia. La contessa era molto più scaltra del conte Carminati Brambilla. Aveva intuito subito qual era il potere destinato a vincere in Italia. Voleva farne parte e, al tempo stesso, dominarlo e sfruttarlo. Per riuscirci disponeva di un’arma vecchia quanto il mondo: il sesso.
La sua disinvoltura nel praticarlo l’aiutò a diventare una leggenda nell’ambiente del fascismo rampante. Alternava gli amanti con astuzia, favorita dalla passività del conte. Riceveva i ras nel castello di Semiana, senza troppi sotterfugi. E forse spiegava al Carminati che il suo era un sacrificio necessario per tenerlo al riparo delle pretese dei vincitori. (...).
Poi la fortuna della contessa slandrona declinò, anche perché non era più la trentenne pimpante della domenica di maggio a Mortara. Stava diventando una signora dall’aspetto sempre meno attraente. E quando Forni la prese di mira, si rese conto che non possedeva più la forza di reagire. Ma questo lo racconterò dopo.