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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

AGGRESSIONE AI CRISTIANI D’ORIENTE, A RISCHIO DUEMILA ANNI DI STORIA

Le macerie più angoscianti, tra immagini di chiese bombardate, altari saccheggiati e antichissime icone spaccate e calpestate, sono quelle che non si vedono. Le macerie di un mondo millenario devastato e cancellato in un secolo dall’odio. Con una spaventosa accelerazione negli ultimi anni verso il precipizio. Erano il 15 per cento della popolazione, i cristiani, in Siria: nel 2050, spiega il World Christian Database dell’Università di Oxford, saranno ridotti (se non va peggio) all’1,32. Erano il 6,4 in Iraq: saranno lo 0,37. Erano l’11,6 in Palestina: saranno lo 0,5. Erano il 22 per cento nel cuore dell’Anatolia: saranno lo 0,17.
Perfino in Libano, che fino al 1970 era a larga maggioranza cristiana, i greci-ortodossi, i greci cattolici, i melchiti, i siriaci, i caldei, gli armeni e i cattolici, la cui varietà non è solo fonte di ricchezza, ma di grande debolezza, sono oggi ridotti a poco più di un terzo della popolazione e, stando alle proiezioni della Oxford University, sono destinati a calare a poco più di un quarto. E dunque ad essere sempre più emarginati.
Racconta una leggenda, ripresa da Andrea Milluzzi in Parabole d’Oriente , che «nel 939 il califfo al-Mu’izz li-Din Allah sfidò papa Abram, guida dei copti egiziani, a dar prova del passo del Nuovo Testamento secondo cui i cristiani potrebbero spostare le montagne se lo desiderassero con fede. Il califfo invitò il patriarca a spostare il Muqattam, la montagna che si erge sopra Il Cairo, e se non ci fosse riuscito il Cristianesimo sarebbe stato bandito in quanto “falsa religione”. Ma il Muqattam si spostò, i copti furono salvi e da allora un monastero dedicato a San Simeone il conciatore, un asceta che viveva sul monte e che pregò in soccorso di papa Abram, è meta di pellegrinaggio per turisti e fedeli. Ai piedi della montagna e del monastero sorge «Garbage City», la città dei rifiuti, dove decine di migliaia di copti vivono in mezzo a un’enorme distesa di spazzatura. Sono gli zabbalin (la gente dell’immondizia, in arabo), famiglie cristiane il cui lavoro è raccogliere e selezionare la spazzatura di quasi tutta la capitale, per poi riciclarla». Una vita tra i rifiuti per una minoranza sempre più rifiutata come estranea nonostante quasi duemila anni di presenza in Egitto. Il tutto sotto gli occhi dell’Europa, sempre più imbarazzata e impotente dopo aver causato in Medio Oriente, con i suoi errori, troppi guasti.
«La protezione straniera fu soltanto menzogna e fumo negli occhi. Non ha mai avuto risultati positivi. Ha forse potuto evitare massacri atroci e abominevoli? Al contrario i cristiani hanno raccolto attentati, odi seminati, progettati, voluti, sollecitati dalle Potenze», scriveva già nel lontano 1924 Habib Abi-Chahla nel rapporto L’extinction des Capitulations en Turquie et dans les Régiones Arabes . «Sappiamo bene che esse non hanno risparmiato proteste e reclami in favore delle minoranze. Ma abbiamo la prova di quanto illusorie siano state tali garanzie. Esse producono in realtà l’effetto contrario. Conducono ad una separazione sempre maggiore musulmani e cristiani, che invece avrebbero interesse a unirsi ed a essere solidali in difesa del patrimonio comune. Il settarismo ha di fatto dominato in Oriente, grazie alla politica nefasta delle Potenze».
Quale sia oggi il panorama di quelle terre un tempo cristiane e fino a pochi decenni fa «anche» cristiane è riassunto in una bellissima e struggente mostra fotografica che, dopo un’anticipazione al meeting di Rimini, si apre venerdì 19 settembre, per due settimane, alla Gipsoteca del Vittoriano. Si intitola appunto Parabole d’Oriente. Il cristianesimo alla sfida del nuovo millennio , è stata promossa dal diplomatico e intellettuale armeno Vartan Karapetian, curata dalla nostra Renata Ferri e basata sulle foto di Michele Borzoni e i testi di Andrea Milluzzi, da anni in viaggio alla ricerca di ciò che resta delle comunità cristiane in Medio Oriente.
È una storia di storie. Di amori e di odii. Smakieh, un piccolo villaggio giordano vicino al bellissimo castello crociato Kerak, è «abitato da due sole famiglie che si spartiscono terreni e case, gli Hijazin e gli Akashe, entrambe cristiane», ma divise al punto che il vecchio parroco è stato «allontanato per aver compiuto l’unico gesto vietato a Smakieh: celebrare le nozze fra un al Hijazin e un Akashe». La piana irachena di Ninive avrebbe potuto diventare un’enclave esclusivamente cristiana ma Louis Sakho, patriarca di Babilonia dei caldei, rifiutò spiegando che «reclamare la creazione di un ghetto è contro il messaggio cristiano, che ci vuole sale e lievito in mezzo a tutta la pasta dell’umanità». A costo della vita.
E poi Ma’lula, bellissima e amatissima dai viaggiatori quando ancora si poteva viaggiare in Siria, sede di antichissimi monasteri come quello di San Giorgio del 325 d.C. e famosa per essere l’ultimo borgo dove si parlava ancora l’aramaico che parlava Gesù Cristo: presa dai qaedisti nell’estate 2013, fu ripresa dall’esercito siriano a settembre, riconquistata dai miliziani islamici a novembre e di nuovo strappata loro dall’esercito grazie all’aiuto delle milizie libanesi sciite degli Hezbollah. E sta lì, in bilico tra la sopravvivenza e la catastrofe.
«A trenta chilometri da Ma’lula sorge Saydnaya dove è custodita un’icona della Vergine Maria dipinta da San Luca che fa del villaggio il secondo luogo più importante per i cristiani d’Oriente dopo Gerusalemme». E poi altre storie di testimonianze che miracolosamente resistono da secoli in tutti i Paesi dell’area, compreso l’Iran sulle cui montagne sorgono solenni e solitari i monasteri armeni di Santo Stefano e di San Taddeo, la «Qara Kelisa», chiesa nera, una delle più antiche del pianeta, fondata addirittura nel 68 d.C.
E sono proprio le terre un tempo armene a chiudere la mostra. Con le foto ad esempio della cattedrale della Santa Croce sull’isola di Akdamar, nel lago di Van: vandalizzata nel 1915, la cattedrale è stata riaperta nel marzo 2007 come museo laico, con un nome turcofono, ritratti di Ataturk e senza la croce sul tetto: i figli degli armeni sopravvissuti al genocidio, gentile concessione, possono celebrarci la messa solo una volta l’anno.
È passato un secolo, dalla cancellazione degli armeni dall’Anatolia. E man mano che si avvicina l’anniversario i cristiani vivono la nuova stagione di fanatismo islamico in Siria e in Iraq, con quelle chiese bombardate, quelle icone profanate, quelle conversioni imposte col terrore, come il riaffacciarsi, alle porte di casa, di un incubo. Il riaprirsi di una ferita che butta ancora sangue.