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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

«TUTTO QUELLO CHE NON HANNO CAPITO GLI ESTREMISTI DEL BIO A OGNI COSTO»

Cibo. Parola che contiene un abisso di significati. Per esempio la controversa coppia «naturale-artificiale», con cui ci riempiamo la testa prima ancora di saturare la pancia. Ed è questa dicotomia - sempre più in prima linea tanto nei dibattiti pubblici quanto nelle conversazioni quotidiane - che analizzerà al meeting veneziano di «The Future of Science» uno dei maggiori filosofi italiani, Giulio Giorello.
Professore, lei sostiene che la contrapposizione «naturale-artificiale» che ci ossessiona è troppo rigida e che in origine, al tempo della Rivoluzione scientifica del Seicento, le cose erano diverse: la tecnologia era considerata «naturale», in quanto obbedisce alle leggi della Natura. Come nacque questa idea?
«E’ un’idea ben chiara negli autori del Seicento, in filosofi come Bacone, scienziati come Galileo e visionari come Giordano Bruno. Un’idea che troverà una grande riaffermazione nella concezione di evoluzione non solo naturale ma anche culturale in Darwin e che sarà recepita nei saggi sulla religione da Stuart Mill, anche se l’integrazione di natura con cultura - riassunta nel termine inglese “nurture” - è una pratica che esisteva molto prima di questa consapevolezza intellettuale ed etica».
E allora su che cosa equivochiamo quando facciamo collidere natura e cultura?
«Noi, per esempio, idealizziamo le “belle campagne” lombarde e non ci rendiamo conto che sono il prodotto di un lavoro di secoli, nel Medioevo, quando si sono disboscati i terreni e sono stati trasformati in ciò che oggi chiamiamo “paesaggio naturale” e che in realtà è artificiale».
Quindi quello di «Madre Natura» è un mito ingannevole?
«Non c’è idea più culturale e innaturale di una natura vergine e incontaminata, idea creata dai romantici a fine Settecento. E sull’ingenuità di questa concezione ha scritto pagine grandiose Leopardi».
Da qui nascono anche ulteriori equivoci sui corretti rapporti che dovremmo intrattenere con la Natura. È così?
«Dirò di più. È anche falsa l’idea che noi, oggi, siamo i grandi inquinatori: lo siamo semplicemente perché siamo tanti e per effetto di una politica sconsiderata di incremento demografico, che non pratica un controllo globale delle nascite. Ma già le piccole comunità del Neolitico e perfino i nostri amati Greci inquinavano e facevano i loro disastri ecologici. Ma su scala più ridotta. Oggi, però, abbiamo uno strumento che loro non avevano».
Qual è questo strumento?
«E’ la scienza, capace di articolate applicazioni che permettono di capire la portata delle innovazioni tecnologiche e che ci induce a sperimentare. Trovo oscurantista il divieto degli Ogm, anche se riconosco che chi non vuole consumarli debba avere la possibilità di riconoscerli con la dovuta etichettatura».
Qui entra in gioco il famoso «principio di precauzione» che a lei non piace: perché?
«Come viene spesso formulato da filosofi sopravvalutati, tipo Habermas, prescrive di non applicare alcuna innovazione, se non si è dimostrata l’assenza completa di rischi. Ma come si fa? È come cercare un ago in un pagliaio infinito, obbligandoci a una ricerca senza limiti».
In alternativa come ci si deve comportare di fronte alle sfide tecno-scientifiche?
«Analizzare sì, i rischi, ma poi si deve scegliere razionalmente sulla base delle valutazioni di probabilità, come hanno insegnato - ancora una volta - grandi pensatori del Seicento, e mi riferisco a Pascal, Arnauld, Nicole. Le valutazioni - diceva Locke - si fanno nel crepuscolo delle probabilità».
Oggi, però, molta tecnologia è percepita come «diabolica»: quando e perché c’è stato il ribaltamento rispetto alle logiche seicentesche?
«Una responsabilità è anche di qualche deriva del pensiero romantico. Ma non dei migliori romantici, tipo Novalis, che era un ingegnere e sapeva di cosa parlava quando parlava di macchine. Piuttosto è di un certo modo di intendere il Romanticismo, tipico dei Paesi sottosviluppati che soffrono di un complesso di inferiorità nei confronti di quelli più avanzati».
Sottosviluppati come noi italiani?
«Pensiamo alla demonizzazione di grandi teorici dell’economia, per esempio Smith. E poi un certo marxismo d’accatto, che non ha niente a che fare con Marx o, ancora, certe tendenze spiritualistiche, spesso legate a un cattolicesimo di maniera, hanno fatto il resto, in un Paese - l’Italia - dove la tecnologia è vista come una sorta di magia e che tuttavia ha avuto grandissimi tecnologi: da Marconi fino a Olivetti».
E così oggi prevale la retorica del «genuino» a tutti i costi: come ci si difende?
«Penso che ci sia molta disinformazione e un pizzico di malafede: questo vale per l’ostilità verso gli Ogm o per altre forme di sperimentazione biotecnologica. Ecco perché deve cambiare il dibattito: la conoscenza non è etica, ma c’è un’etica della conoscenza e questa è il contrario sia delle ideologie che cavalcano le emozioni, come un certo ecologismo estremista, sia dei tentativi di coloro che vorrebbero asservire scienza e tecnica ai meschini calcoli del potere».