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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

OBAMA E L’ULTIMO TABU’. TORNA L’INCUBO VIETNAM

Sette giorni sono bastati a sdoganare la parola “guerra”. È davvero una guerra a tutti gli effetti quella dell’America contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq: il Pentagono non esclude più di usare truppe terrestri anche in prima linea, in operazioni di combattimento su quei fronti. L’annuncio è clamoroso. Contraddice quel che Barack Obama aveva promesso, parlando solennemente al Congresso e alla nazione appena una settimana fa: «Niente scarponi americani sul terreno, questa non sarà una guerra, mando solo consiglieri militari, addestratori, e cacciabombardieri», disse il presidente.
Sette giorni sono bastati a innescare una logica da escalation? È il capo di Stato maggiore, generale Martin Dempsey, a lanciare questa “bomba” politica riferendo a sua volta al Senato, affiancato dal segretario alla Difesa Chuck Hagel. La Casa Bianca ha subito frenato e un portavoce ha parlato di «scenari ipotetici». Ma quello di Dempsey è un ballon d’essai gravido di conseguenze. «I raid aerei — dice il generale — sono la strategia giusta. Ma se ad un certo punto ritenessi necessario affiancare coi nostri soldati le truppe dell’esercito iracheno, per colpire specifici bersagli dello Stato Islamico, andrei dal presidente per raccomandargli questo ricorso alle nostre truppe terrestri in compiti di combattimento». Dempsey ha precisato che si tratterebbe con ogni probabilità di forze del Special Operations Command, i reparti di élite addestrati per missioni ad alto rischio dietro le linee nemiche. Ha ancora aggiunto che un loro compito potrebbe essere quello di “guidare da terra” gli attacchi aerei americani in modo che i bersagli da colpire siano individuati con la massima precisione. Il suo annuncio si aggiunge all’ipotesi lanciata dalla Gran Bretagna di mandare delle forze d’assalto col compito di liberare ostaggi inglesi ed eliminare quei jihadisti (alcuni di nazionalità inglese) che hanno decapitato i prigionieri.
Di fronte a Obama c’è uno spettro: “mission creep”, il termine con cui dal Vietnam in poi si designa lo slittamento progressivo delle missioni militari, dall’invio di consiglieri al coinvolgimento di forze sempre più consistenti. La presa di posizione del Pentagono segnala una nuova offensiva dei falchi Usa. Gli stessi vertici militari avevano convinto Obama nel 2010 ad autorizzare un escalation (“ surge”) in Afghanistan. Obama era più inesperto, non era ancora giunto alla metà del suo primo mandato, il pressing su di lui da parte dei vertici militari era stato poderoso. E tuttavia in quel caso il presidente aveva imposto come contropartita una data-limite entro la quale sarebbe iniziato il ritiro. Ora invece la caccia ai jihadisti sembra “ open ended”, una missione che non ha un orizzonte preciso, una scadenza. A risucchiare verso una vera guerra il presidente che era stato eletto per riportare le truppe a casa dall’Iraq e dall’Afghanistan, contribuisce in modo determinante la vicenda delle decapitazioni. Nella percezione dell’opinione pubblica americana tutti i sondaggi confermano che i video con le decapitazioni dei giornalisti sono stati un punto di rottura, l’improvviso ribaltamento in favore di un’azione militare. Ora quei riti feroci potrebbero continuare con regolarità, visto il numero di ostaggi in mani ai jihadisti, ponendo su Obama una pressione insostenibile. Non cessano le accuse della famiglia di James Foley, i genitori continuano a dire che il giornalista americano «fu abbandonato dal governo». Il presidente accusato di «non avere una strategia» da parte dei suoi avversari di destra, non vuole dare un’immagine di indecisione o debolezza. Ieri del resto la frase del generale Dempsey è stata “provocata” da un’accusa del se- natore repubblicano John Mc-Cain: «Come pensate di sconfiggere 30.000 jihadisti dello Stato islamico, con 5.000 oppositori siriani male addestrati?». Il capo di Stato maggiore ha voluto comunque precisare che l’intervento di soldati Usa sul terreno «non è la posizione attuale di Obama; il presidente mi ha detto di tornare da lui di volta in volta, caso per caso, se la situazione dovesse cambiare».
L’annuncio-shock del generale Dempsey è venuto al termine di una giornata già carica di segnali convergenti. Lo stesso Pentagono ieri ha annunciato ufficialmente l’inizio a breve dei bombardamenti estesi al territorio siriano. Perfino i raid condotti nelle ultime 48 ore dalla U. S. Air Force in Iraq hanno segnato un salto di qualità. È ormai guerra aperta, a tutto campo, anche se sulla parola “guerra” continua un curioso balletto: di volta in volta appare o scompare nelle dichiarazioni di Obama, del vice Joe Biden, o dei rispettivi portavoce. Sul fronte opposto, per gli americani un segnale d’allarme è il primo abbattimento da parte dello Stato Islamico di un caccia dell’aviazione siriana, che sorvolava Raqqa. È uno dei modi in cui le milizie jihadiste possono trascinare l’America nell’escalation: qualora riescano ad abbattere un aereo Usa oppure a catturare qualche militare delle forze speciali. La U. S. Air Force ha certo una superiorità tecnologica sull’avversario, non è paragonabile all’aviazione di Assad. Ma non si può escludere il peggio.
L’accelerazione degli eventi militari è scattata poche ore dopo la conferenza di Parigi, in cui l’America ha potuto presentare una larga alleanza che va dai maggiori membri della Nato fino a diversi paesi arabi. L’ampia partecipazione di paesi arabi costituisce un successo diplomatico per Obama ma anche una sottolineatura che la percezione del pericolo Is è aumentata drammaticamente in tutto il Medio Oriente.