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 2015  settembre 12 Sabato calendario

NON SOLO CAYMAN: IL PARADISO FISCALE SI È SPOSTATO

(Qualche volta dietro l’angolo) –
Bahamas, Cayman, Antille olandesi, Isole Vergini britanniche, Panama e Bermuda. Non è l’elenco delle mete migliori per una vacanza last minute, ma il catalogo dpi centri caraibici a maggior tasso di opacità finanziaria. 1 cosiddetti paradisi fiscali. E fin qui siamo al business as usual. Ma proprio i correntisti dei Caraibi nel 2012 si sono piazzati al quarto posto nella speciali’ graduatoria dei detentori del debito pubblico americano. Solo le Cayman sono il quinto centro finanziario del Pianeta, contano 50 mila abitanti e 800 mila società, quasi tutte pro forma. Eppure gravitano in un universo tutt’altro che parallelo: come ai tempi di Francis Drake, anche oggi Tortuga è più il cuore che il virus del sistema. Nulla come la dipendenza delle casse di Obama dai forzieri caraibici rivela l’intreccio tra bianco e nero, opacità e trasparenza, bilanci pubblici e sottosuolo economico. A questa paradossale normalità la giornalista economica Nunzia Penelope ha dedicato Caccia al tesoro (Ponte alle Grazie, pp. 210, euro 13), un documentatissimo viaggio alla ricerca del «più grosso bottino della storia»: 32 mila miliardi di dollari nascosti nei paradisi fiscali violando, eludendo o semplicemente battendo le leggi sul loro stesso terreno.
Ci sono paradisi alpini e balneari, europei ed esotici, di nicchia e di massa. Insieme sono la prima economia del Pianeta: per il Fondo monetario internazionale la cassaforte invisibile del mondo custodisce 16 mila miliardi di dollari, ma secondo lo studio realizzato per TaxJustice Network dall’economista (ex McKinsey) James Henry, i patrimoni «anonimizzati» nei paradisi fiscali sono almeno il doppio. Due volte il Pil statunitense, sedici volte quello italiano, chiosa Nunzia Penelope. Ci sono i signor Rossi con il conto in Svizzera (dei 104 miliardi di euro rientrati con lo scudo fiscale del 2009, il 70 per cento proveniva da Lugano e dintorni), ma ci sono anche le maggiori aziende globali. L’udienza al Congresso americano di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, è una pietra miliare per capire quanto, come e dove è cambiato il nostro mondo. Al fuoco di fila bipartisan che nel maggio 2013 gli rinfaccia i cento miliardi di dollari depositati in paradisi fiscali, l’erede di Steve Jobs risponde che non è evasione, non è elusione, è semplicemente un esempio riuscito di «ottimizzazione fiscale». Penelope fa notare che i profitti di Apple sono passati allo 0,05 per cento, quando in America il reddito d’impresa ha un’aliquota del 35. Ipad, iPhone, iTunes? «Non saremmo qui se non avessimo fatto così» è la disarmante rivendicazione dei vertici di Cupertino. E sì che stanno parlando del brand più prezioso del Pianeta: tutto fuorché un universo parallelo.
Caccia al tesoro fa capire con una mole impressionante di dati e di esempi che la finanza offshore è la nuova norma, e sta al nostro tempo come gli algoritmi di Google e Facebook (che infatti ne fanno ampio uso). Certo, ci sono le inchieste della nostra Guardia di Finanza, i grandi nomi che firmano concordati per decine di milioni di euro, la montagna di miliardi (tra 180 e 200) custoditi illecitamente dagli italiani all’estero. Ma l’autrice suggerisce che non è questo il punto.
Passando dai Caraibi alla Svizzera, da Cipro alla Manica a Singapore, l’élite economica del mondo si sta costruendo un mondo a sua immagine e somiglianza che bypassa legalmente la realtà delle cose: un mondo in cui il made in Italy è soprattutto un prodotto lussemburghese, Google è il nome di un’azienda attiva tra Dublino e Bermuda e la coltivazione del caffè prospera in clima alpino. Sì, perché, oltre che cassaforte globale, la Svizzera è da qualche anno anche il maggior esportatore mondiale di materie prime: di qui passa il 60 per cento del caffè, il 50 dello zucchero, per non parlare dei famosi «giacimenti» di Ginevra e Zurigo che forniscono il 30 per cento del petrolio mondiale.
Questione di professionalità, ovviamente. Di proverbiale efficienza elvetica. Ma anche di massima discrezione e minime aliquote: un passaggio in Svizzera, a Singapore o ai Caraibi conviene sempre, tanto che il think tank americano Global Financial Integrity ha calcolato in 60 miliardi di dollari in dieci anni le perdite da elusione fiscale di un campione di cinque Paesi africani. Prima pratica sotto accusa: l’esportazione di materie prime tramite triangolazioni pro forma.
Dicono che presto cambierà tutto; da qualche anno G8, G20 e Ocse assicurano che sta per iniziare la nuova era della trasparenza finanziaria. Eppure alla fine del viaggio, Nunzia Penelope si mostra piuttosto scettica: si è mai visto un organismo rinunciare al suo cuore pulsante? Nel dubbio, nuovi paradisi attirano vecchi elusori: si candida il Gambia in Africa occidentale, il Kenya sull’Oceano indiano, addirittura il Tibet in Asia, mentre Washington impone alla Svizzera di rinunciare al segreto bancario ma lascia che il suo Delaware si confermi capitale mondiale delle scatole cinesi. Il fatto poi che proprio l’americanissimo Delaware riservi i suoi servizi esclusivamente a contribuenti non americani, fa capire che la battaglia per la trasparenza è soprattutto una guerra di potere. Sarà per questo che gli sforzi riformatori del Parlamento europeo sono marcati a vista da 1700 lobbisti finanziari. Non tutti a difesa di quelli che Leena Heimsley, miliardaria americana con un debole per l’evasione fiscale, definì le «persone insignificanti». Ovvero quelli che pagano le tasse.