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 2014  settembre 12 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste, Elliot Roma 2014, pp. 240, 17,50 euro

Notizie tratte da: Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste, Elliot Roma 2014, pp. 240, 17,50 euro.

«Una peste spaventosa a Londra ci fu / Nell’anno milleseicentosessantacinque. / Spazzò via centomila anime, / Eppure io sono ancora qui» (Daniel Defoe).

Prima della peste apparve nei cieli di Londra, e restò lì per mesi, una cometa di colore pallido, smorto, dal moto lento. La gente predisse disgrazie.

La peste giunse a Londra attraverso della seta proveniente dall’Olanda e, prima ancora, dall’Oriente. La prima vittima in una casa di Long Acre, dove la mercanzia fu condotta e aperta per la prima volta. In quell’abitazione morirono quattro persone.

Quasi impossibile trovare cavalli da comprare o affittare, essendo tutti già utilizzati per fuggire dalla città.

Grande ressa davanti alla porta del sindaco per ottenere passaporti e certificati di buona salute, necessari ad attraversare le città lungo la strada o per alloggiare nelle locande.

Si camminava al centro delle vie per evitare contatti con quelli che uscivano dalle case e per non essere raggiunti da esalazioni e odori provenienti dall’interno.

Il fantasma che, a detta di molti, appariva nel cimitero di Bishopsgate per camminare sulle lapidi fino alle undici di sera, quando si dileguava all’improvviso.

Gli indovini, riconoscibili per il loro abbigliamento costituito da giacca di velluto, collare e mantello nero. La gente li seguiva per strada e li tempestava di domande. La città fu presto piena di sedicenti esperti in magia nera. Divenne per loro consuetudine mettere insegne sopra la porta di casa con scritto “Chiromante”, “Astrologo”, “Qui si leggono oroscopi”.

I libri L’Almanacco di Lilly, Le previsioni astrologiche di Gadbury, L’Almanacco del Povero Robin, Esci di Babilonia, mio popolo, se non vuoi essere partecipato delle sua piaghe: tutti predicevano la rovina di Londra.

Il governo designò pubblici predicatori e fissò alcuni giorni di digiuno e penitenza per andare incontro al fervore religioso sella popolazione.

Vietata la rappresentazione di tutte le commedie, chiuse e abolite le bische, le sale da ballo e da concerto, eliminati i pagliacci, i saltimbanchi, gli spettacoli di burattini, funamboli e simili.

Successo dei ciarlatani che vendevano «pillole garantite contro il contagio», «ricostituenti eccezionali contro l’inquinamento dell’aria», «antidoti preventivi infallibili contro il contagio», «pasticche anti-pestilenza», «acqua anti-peste». Tutti a base di sostanze nocive, quasi sempre mercurio.

Quello che dava «consigli gratis ai poveri». Poi li convinceva a prendere una medicina, che si scopriva essere molto cara, circa mezza corona. Se gli si faceva notare che prometteva assistenza gratis, rispondeva: «Ai poveri do gratis i miei consigli, non la medicina».

Tra i provvedimenti, quello di chiudere dentro casa, con tutta la sua famiglia, il malato di peste. Per ognuna di queste case erano due custodi, uno diurno e l’altro notturno, col compito di non far passare nessuno. Svolgevano anche le commissioni per chi era dentro: se si dovevano allontanare, chiudevano l’abitazione a chiave. Di solito tutta la famiglia dell’ammalato moriva.

Spesso quelli chiusi dentro si facevano fare più copie delle chiavi di casa, per fuggire mentre il custode era a far commissioni. Così a un certo punto le case infette furono sprangate da fuori. Comunque fu grande il numero dei segregati che riuscì a evadere, con la forza (anche uccidendo i custodi) o con l’astuzia. Coloro che scappavano erano generalmente appestati e correvano da un luogo all’altro: forse per questo nacque la diceria, falsa, secondo cui era istintivo, per gli appestati, il desiderio di contagiare gli altri.

Quando, durante una visita, si trovava un appestato, si doveva isolarlo immediatamente. Anche se poi non moriva, la sua casa doveva restare chiusa per un mese e tutti gli altri inquilini assumere farmaci preventivi.

I medici che si occupavano soltanto degli appestati ricevevano 12 pence per ogni paziente visitato. Pagati con i soldi dell’ammalato oppure dalla parrocchia.

Le suppellettili di una casa infetta, i letti, gli utensili, gli indumenti e le tappezzerie: tutti bruciati.

Sepoltura dei morti: prima dell’alba o al tramonto, nessun corteo funebre, fosse profonde almeno sei piedi. Cadaveri a non meno di due metri sotto la superficie del terreno.

Non c’erano più bare disponibili, dato il gran numero di morti.

Le case infette dovevano essere segnalate da una croce rossa lunga trenta centimetri e dalla scritta «O Signore, abbi pietà di noi».

Medici, vigilanti, becchini ed esaminatrici (cioè le addette a controllare lo stato di salute delle famiglie) dovevano girare per le strade con in mano un bastone rosso lungo un metro bene in vista.

All’inizio dell’epidemia il sindaco promulgò un’ordinanza per sopprimere tutti i cani e i gatti, che correndo da una casa all’altra, avrebbero potuto diffondere la peste. Fu nominato apposito ufficiale sanitario per attuare la strage. Furono ammazzati circa quarantamila cani e duecentomila gatti.

Vietato tenere animali. Non si doveva consentire ai maiali di grufolare per le strade: nel caso fosse accaduto, spettava al sagrestano della parrocchia catturarlo. Il proprietario sarebbe stato punito.

Il divieto di entrare in osterie, birrerie e bar dopo le nove di sera.

Quelli che, colpiti dal morbo e prossimi alla fine, in preda al delirio e avvolti in coperte, correvano a buttarsi nelle fosse comuni scavate per seppellire i cadaveri.

I bubboni, che si formavano al collo e all’inguine, provocavano un dolore talmente forte che alcuni, incapaci di sopportarlo, si gettavano dalle finestre.

Quando le ghiandole gonfie si indurivano, i medici applicavano impacchi per farli maturare velocemente e inciderli. Se non ottenevano l’effetto desiderato, li tagliavano e scarnificavano. In alcuni casi i bubboni indurivano perché fatti maturare con troppa rapidità e diventavano impossibili da incidere: i medici allora li bruciavano con la «pietra infernale», cioè nitrato d’argento.

Alcuni antidoti per evitare il contagio: tenere in bocca aglio e ruta, fumare tabacco, lavarsi la testa con l’aceto.

«La peste fu, per così dire, una liberazione. Imperversando in modo spaventoso dalla metà di agosto alla metà di ottobre, portò via in quel periodo trenta o quarantamila persone di bassissimo ceto che, se fossero state risparmiate, sarebbero state un intollerabile peso a causa della loro miseria».

Morti di peste dentro la City in due mesi: 3.880 dall’8 al 25 agosto; 4.237 dal 15 al 22 agosto; 6.102 dal 22 al 29 agosto; 6.988 dal 29 agosto al 5 settembre; 6.544 dal 5 al 12 settembre; 7.165 dal 12 al 19 settembre; 5.533 dal 19 al 26 settembre; 4.929 dal 26 settembre al 3 ottobre; 4.327 dal 3 al 10 ottobre. Totale: 49.705 (il totale dei morti per tutte le malattie fu di 59.860).

Alla parrocchia di Stepney in un anno morirono di peste 116 sagrestani, «affossatori» e aiutanti (monatti e conducenti di carri per sgomberare i cadaveri).

Il problema delle donne incinte che, giunte al momento del parto, non riuscivano a trovare levatrici, molte delle quali erano morte (soprattutto quelle che assistevano i poveri), e le più rinomate fuggite in campagna. Se la partoriente era appestata, nessuno si avvicinava per aiutarla, e così morivano sia lei sia il bambino.

Donne morte di parto nella City ad agosto nel 1664: 189. Nell’agosto 1665 (anno della peste): 625. Aborti e nati morti in agosto 1664: 458. Nell’agosto 1665: 617.

L’uomo annientato dal dolore per la perdita dei suoi cari, così tanto che il capo gli affondò a poco a poco nel corpo, in mezzo alle spalle, in modo tale che divenne visibile solo la sommità della testa.

Non ci fu cittadina nel raggio di dieci o venti miglia da Londra che non ebbe i suoi morti di peste. Per esempio furono 121 a St Albans, 109 a Rumford, 432 a Brentford, 623 a Deptford. Per questo motivo coloro che fuggivano da Londra per andare a stare nei dintorni, spesso venivano ricacciati indietro per il timore che portassero la peste.

Quell’appestato che, in preda a furore, fuggì di casa, si denudò, si gettò nel Tamigi, nuotò fino all’altra riva, corse per un po’, si rituffò di nuovo, tornò a casa, si rimise a letto. Guarì perché il movimento degli arti aveva fatto maturare e rompere i bubboni, e l’acqua fredda abbassato la febbre.

Era usanza, durante le epidemie di peste, accendere fuochi per la città. A Londra in proposito i medici si schierarono in due opposte fazioni: una riteneva che fossero dannosi, altri che invece fossero utili. Tra questi ultimi, alcuni li volevano solo di legna, soprattutto abete o cedro, per via delle forti essenze di trementina, altri solo di carbone, per la presenza di zolfo e bitume. Alla fine il sindaco li proibì, perché tanto erano inutili.

In un’unica notte di fine agosto morirono tremila persone. Molti, si disse, tra l’una e le tre del mattino.

In certe zone moriva così tanta gente da non esserci più i vivi che potessero andare a chiamare i monatti.

L’ammalato che, essendo legato al letto, non trovò altro mezzo per liberarsi che appicarsi il fuoco con la candela che gli era stata posta vicino.

Pur nell’infuriare dell’epidemia, non mancarono mai panettieri aperti: erano tenuti a far funzionare ininterrottamente i forni a fronte della minaccia di perdere i privilegi di liberi cittadini.

Il prezzo del pane non aumentò mai troppo. Era il sindaco, con delle ordinanze settimanali, a fissarne il prezzo. Per esempio: all’inizio dell’anno con un penny si comprava una pagnotta di dieci once e mezzo, al colmo della peste per lo stesso prezzo se ne aveva una di almeno nove once e mezzo.

Le strade erano tenute sempre pulite e i cadaveri rimossi il prima possibile. Tutte le operazioni che comportavano scene raccapriccianti ed erano pericolose, venivano svolte di notte.

C’erano solo due lazzaretti e molti ammalati aspiravano ad essere ricoverati lì, perché i medici erano bravi. Ma nessuno vi era ammesso se non dietro pagamento in contanti o almeno una garanzia di solvibilità.

Persone che morirono nel lazzaretto di Londra: 156. In quello di Westminster: 159.

C’erano quelli che, senza segni della malattia, morivano all’improvviso dopo aver infettato un gran numero di persone. Secondo alcuni, li si sarebbe potuti riconoscere dall’odore del fiato, cosa che nessuno avrebbe potuto sperimentare, data la pericolosità del metodo. Altri proposero di controllarne il respiro osservandolo su uno specchio: mediante il microscopio si sarebbero potuti vedere, secondo loro, organismi dalle forme di serpenti, dragoni e satanassi.

Lo scienziato convinto che il respiro di un appestato avrebbe potuto ammazzare una gallina o, almeno, far marcire tutte le uova da essa deposte.

Nessun porto della Francia, dell’Olanda, della Spagna e dell’Italia lasciava più entrare navi londinesi nei loro porti.

In Spagna una nave londinese aveva consegnato clandestinamente il proprio carico, costituito da balle di stoffe, cotone, lana e altri tessuti. Gli spagnoli fecero bruciare tutta la mercanzia e punirono con la morte quelli che l’avevano portata a terra.

Il commercio navale di grano verso Londra continuò normalmente: chi risaliva il Tamigi per consegnarlo, lo scaricava senza scendere dalle imbarcazioni. Il denaro veniva loro portato direttamente sulle navi e messo a bagno nell’aceto prima di essere consegnato.

Secondo alcuni il calore poteva diffondere l’infezione: il clima afoso riempiva l’aria di animaletti e germi nocivi e, aprendo i pori delle persone, facilitava il loro ingresso nell’organismo.

Altri erano convinti che si dovesse mantenere il sangue «caldo» per evitare il contagio. Si poteva ottenere l’effetto con alcolici, come quel medico che «una volta finita l’epidemia, non ne potè più fare a meno e diventò un ubriacone per il resto della sua vita».

Il collegio dei medici pubblicava ogni giorno diverse ricette per creare antidoti alla peste.

Nel corso delle prime tre settimane di settembre non morirono meno di ventimila persone a settimana.

A settembre, nonostante ancora molti si ammalassero di peste, la mortalità iniziò a diminuire. Il che spinse molti a irragionevole fiducia: ripresero la loro vita come se il male non ci fosse più, senza precauzioni. Molti, che si erano salvati fuggendo dalla città, rientrarono. Fu così che il numero dei morti tornò a crescere, soprattutto tra quelli appena tornati a Londra.

Grande biasimo sui medici che, fuggiti durante l’epidemia, vi tornarono mentr’essa si placava. Erano chiamati «disertori» e spesso sulle loro porte erano appesi cartelli con su scritto «Dottore in affitto». Uguali critiche sui sacerdoti che erano partiti nel momento dela crisi: al loro rientro, sui loro usci, si potè leggere «Pulpito in affitto» o «Pulpito in vendita».

Al termine dell’epidemia i più poveri disinfettarono le case tenendo aperte le finestre giorno e notte, bruciando zolfo, pece, polvere da sparo. I più prudenti chiusero ermeticamente le stanze dentro cui fecero ardere incenso, benzoino, resina, zolfo e, infine, uno scoppio di polvere da sparo. Altri accesero grandi fuochi, altri bruciarono definitivamente le abitazioni.

Nove mesi dopo la fine della peste avvenne il grande incendio che distrusse Londra.

«Un nuovo anno di peste comporrebbe tutte le discordie, uno stretto contatto con la morte eliminerebbe il fiele dalle nostre anime, allontanerebbe le inimicizie tra di noi, ci indurrebbe a vedere le cose con occhi diversi da quelli con cui le guardavamo prima».

Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste, Elliot, Roma, 2014, euro 17,50, pp. 240