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 2014  settembre 12 Venerdì calendario

LA MIA SCALA REALE

[Intervista a Riccardo Chailly] –

A proposito di Pereira: cosa ha da dire sul presunto conflitto d’interessi che avrebbe avuto nell’acquistare per la Scala alcune opere che già aveva programmato a Salisburgo, dove precedentemente era direttore artistico?
«Le coproduzioni sono d’obbligo ancor più per la crisi finanziaria che stiamo attraversando. I contratti fra enti statali non possono che essere limpidi. La burocrazia interna ai teatri è altra cosa che non mi compete. A ciascuno il suo sapere. Consideri però che i più grandi teatri del mondo vivono di coproduzioni, da New York a Vienna a Londra, a Monaco di Baviera. È così che oggi, in anni di crisi, si programma per puntare a un progetto artisticamente valido con grande attenzione ai costi».
Recentemente Pereira ha espresso qualche perplessità a proposito del fenomeno dei Loggionisti, che tanto hanno pesato con i loro polemici interventi nella gestione di Stephane Lissner.
«Il dissenso è lecito. Ma mi spiace sempre quando travalica con eccessi il rispetto delle idee altrui, trasformandosi in un atteggiamento arrogante, non consono all’importanza e alla classe del teatro».
Sempre dei Loggionisti si è lamentato il tenore Roberto Alagna.
«Alagna mi ha fatto quasi prendere un infarto la sera di quella famosa recita di “Aida”, dopo Sant’Ambrogio (si riferisce alla replica in cui il cantante fu contestato ferocemente, n.d.r.)»
Rivedremo Riccardo Muti alla Scala?
«Ho fatto una conferenza stampa molto chiara in proposito: devono tornare alla Scala i direttori che hanno segnato la sua storia. E lo stesso devono fare artisti di prestigio mondiale, che non hanno mai condotto alla Scala in passato».
È immaginabile una forma di collaborazione fra la sua magnifica orchestra tedesca, la Gewandhaus di Lipsia, e la Scala?
«Posso solo dirle che in febbraio faremo una tournée europea molto corposa, e saremo anche alla Scala. Un primo segno di collaborazione. Per il futuro vedremo».
Intanto con la Gewandhaus è in lizza per vincere il premio della rivista “Gramophone”, nella sezione riguardante la migliore esecuzione orchestrale, con l’integrale sinfonica brahmsiana.
«Ripensare Brahms con un ensemble dove le abitudini della tradizione hanno lasciato enormi radici, come era già avvenuto per l’integrale beethoveniana, è stata un’impresa non da poco. Un’orchestra coraggiosa che con me ha saputo rischiare, rileggendo tanti capolavori del passato e abbandonando strade già percorse, più sicure».
Il suono delle orchestre italiane e di quelle tedesche. Potremo mai ascoltare un giorno dall’orchestra scaligera l’integrale delle sinfonie di Bruckner?
«Dipende anche da come si profila il mio futuro milanese. La mia intervista con lei è un po’ il debutto, per parlare di questa nuova carica. Tutto è ancora in evoluzione. Ma se ci saranno le condizioni di lavoro e di collaborazione che io auspico, allora sì che si può pensare anche a un un’integrale bruckneriana o di altri autori. Bruckner potrebbe rappresentare per la Filarmonica un passo epocale».
Fra i suoi progetti anche quello riguardante Sciostakovic?
«Un autore non abbastanza eseguito a Milano. L’Orchestra della Scala è secondo me uno strumento stilisticamente molto idoneo per affrontarlo. Ho in mente da qualche tempo la sua Quinta sinfonia. Sciostakovic è un autore a cui arrivo relativamente tardi. In passato ho eseguito tanta sua musica da film, danza, teatro e opera. Un preludio ideale allo studio delle sue complesse sinfonie. Consideri a esempio quante siano le affinità musicali fra l’ultimo Mahler e Sciostakovic».
Che importanza potrebbe per lei avere una collaborazione con l’altra orchestra milanese, la Verdi, di cui è stato uno dei massimi promotori?
«Recentemente ho celebrato il suo ventennale interpretando l’Ottava sinfonia di Mahler. Ho devoluto l’onorario, dando un piccolissimo contributo alla loro difficile realtà finanziaria.Per me è importante questa idea di collaborazione fra enti, e spero di attuarla anche con la Verdi. Un decennio fa riunii per la prima volta questi due ensemble nell’esecuzione di “Ameriques” di Varèse e fu un successo. Vorrei ripartire con un’idea di quel genere».
Lei ama vivere ad alta quota in Engadina. È poi impegnato a Lipsia: come si organizzerà per la Scala?
«Non amo il pendolariato. Torno in città».
Con il braccio infortunato, per una frattura al gomito destro avvenuta a giugno durante una passeggiata in montagna, Chailly si avvicina dunque alla data del 3 ottobre, che segnerà il nuovo corso scaligero.
«Non voglio assolutamente mancare all’appuntamento con il Requiem di Verdi. L’Orchestra della Scala per la parte sinfonica e il coro per quella vocale ne sono gli interpreti più idonei per tradizione, stile, cultura e frequentazione. Possono interpretare le pieghe interne più profonde, tragiche e spirituali di questo capolavoro definito da Brahms “l’opera di un genio”. Verdi lo diresse a cinquecento metri dalla sala del Piermanini, nella chiesa di San Marco, in prima mondiale. E poi scomparve al Grand Hotel et de Milan, che è situato a duecento metri dalla Scala. Un triangolo della memoria, un crogiolo di sensazioni, per ogni autentico milanese. Per me, che sono cresciuto con il senso della storia musicale di questa città, avendo seguito fin da bambino questo teatro, del quale mio padre è stato per due mandati Direttore artistico, sarà un momento di straordinaria commozione». n
La Scala di Riccardo Chailly, fra tradizione e ampliamento di repertorio, aperta al mondo e allo stesso tempo ben radicata nella sua identità storica. Dove il particolare, ovvero la cultura italiana, è inteso come valore universale, un vero e proprio “patrimonio dell’umanità”. Chailly, ormai prossimo alla scadenza del 3 ottobre quando, con la direzione della Messa da Requiem di Verdi nel tempio del Piermarini, si presenterà alla città in attesa dell’ufficializzazione della nomina, ci concede una chiacchierata sul futuro del teatro lirico più importante d’Italia e, per la sua storia, del mondo. La prima “ad personam”, in esclusiva, dopo l’annuncio del suo incarico di direttore musicale scaligero, nel dicembre 2013, succedendo nella carica a Daniel Barenboim. Ecco dunque le idee portanti di Chailly.
«Coloro che amano la nostra musica, si aspettano che la Scala s’identifichi per quello che è sempre stata famosa, cioè il grande repertorio operistico italiano», esordisce il maestro.
I motivi di questa scelta?
«È un forte senso di responsabilità, che io sento nei confronti della tradizione. Un punto di forza di questo teatro sugli altri, nel mondo. Come direttore musicale ho sempre tenuto in massima considerazione la matrice culturale degli ensemble dove ho esercitato la mia attività. Ad Amsterdam, al Concertgebouw, erano imprescindibili Mahler e Bruckner. A Lipsia, con la Gewandhaus, sulla colonna portante di Bach, ci dovevano essere Mendelssohn, Beethoven, Schumann e Brahms. Le storie di queste compagini sono le naturali radici musicali su cui basare lo studio e l’impegno interpretativo. A Milano gli autori a cui mi dedicherò saranno Puccini, Verdi, Rossini e Donizetti».
E la musica contemporanea?
«Necessaria, per un teatro della levatura della Scala. Nella prossima stagione, con l’opera “Fin de partie” di György Kurtág, abbiamo lanciato un segnale forte da parte di uno dei grandi autori viventi. Continueranno poi le commissioni da parte della Filarmonica scaligera. Ciò che auspico è che l’orchestra stabilisca un rapporto più diretto, coinvolgente con gli spettatori, che riporti alla Scala ancor più amore e affetto dal suo pubblico. Interazione e spiegazione, a esempio, per le opere eseguite in prima assoluta».
Qual è il biglietto da visita per il prossimo Expo?
«Sarà un momento in cui tutto il mondo guarderà Milano. Dovremo esibire la forza e la capacità di espressione di tutte le potenzialità migliori della città. Per quanto mi riguarda io avrò la responsabilità, il primo maggio 2015, di inaugurare con il Teatro alla Scala questa prestigiosa rassegna. Lo farò con la “Turandot” di Puccini. Un segnale che arriva da due nostri grandi autori: oltre a Puccini, Luciano Berio, che completò il finale dell’opera. Lo stesso che portai alla luce in prima mondiale nel 2002 ad Amsterdam con la regia di Nikolaus Lehnhoff. Luciano assistette per molti giorni alle prove durante le quali avvennero anche delle divergenze con il regista, poi chiarite, e apportò infinite correzioni alla partitura da me trasmesse poi a Casa Ricordi per una nuova pubblicazione. Ricordo ancora l’emozione di Berio causata dal grande senso di responsabilità che ha vissuto con trepidazione per Puccini e il suo ultimo capolavoro. Il messaggio è evidente: sulla nostra tradizione si innesta la produzione di grandi musicisti innovatori come Berio».
Un legame con la Scala del suo grande mentore Claudio Abbado, che la diresse dal 1968 al 1986?
«Parlare di Abbado è parlare dei miei ricordi personali, delle emozioni che mi suscitano. Quando Abbado mi invitò nei prima anni Settanta a diventare suo assistente per i concerti sinfonici, fu un modo per avere accesso a tutte le sue prove e a quelle di tanti grandi direttori ospiti. Un’esperienza fondamentale. Con il Requiem di Verdi, che lo vide tante volte protagonista, intendo anche celebrare la memoria di Claudio come amico, oltre che come maestro esemplare. Un grande interprete che ha influenzato generazioni di musicisti e allargato la conoscenza della musica a nuovi pubblici. Indimenticabili i suoi “Wozzeck”, “Boris”, “Simon Boccanegra”, “Macbeth”, “Don Carlos” eccetera. Così come le sue esecuzioni di Mahler, Brahms, Nono e altri autori allora poco frequentati dal grande pubblico».
Nel suo stile sarà un Verdi in cui l’approccio sinfonico sarà fondamentale.
«Con però la massima attenzione a tutto ciò che riguarda la parte di accompagnamento alla voce umana. L’orchestra è al servizio del canto, che è così ben distribuito da Verdi, per le parti corali e quelle solistiche. Il Requiem esige una chiarezza negli stacchi dei tempi, come sempre in Verdi dettati anche dalle sue scelte metronomiche. E d’altra parte all’interno di questa chiarezza, una grande flessibilità richiesta proprio dalla vocalità verdiana».
C’è ancora qualche reminiscenza abbadiana nel concerto pubblico che lei ha tenuto due anni fa a Milano, in piazza del Duomo, con Stefano Bollani per Gershwin, alla presenza di cinquantamila persone, esperienza che rinnoverà nel 2015?
«Claudio mi ha insegnato l’idea di divulgazione. Il mio fine è stato quello di suonare grande musica al meglio per tutti. In questo ho un’assonanza con i musicisti dell’orchestra e con la direzione artistica della Filarmonica. Lo realizzereremo uscendo dalle mura scaligere. E spero di farlo anche con dei “concerti-scoperta”, come studiare una partitura insieme al pubblico, spiegarla e decomporla per poi riassemblarla in una esecuzione che per questo risulterebbe più comprensibile anche ai neofiti. Stiamo elaborando il progetto sia operistico che sinfonico».
“Viva Verdi” è stato il cd classico più venduto del 2013. Anche le giovani generazioni sentono questo legame con il bussetano.
«Non mi stupisce. È anche l’occasione per considerare come, mediaticamente parlando, la Filarmonica scaligera, protagonista di quell’album, debba essere sempre più presente nel mondo. Per questo stiamo lavorando a un progetto video dedicato ancora a Verdi, con la Decca di Londra. Un discorso che, per forza di cose, presto dovrà riguardare anche Internet. Anche questo è nella progettazione futura».