Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 12 Venerdì calendario

NAZIONALI IGNORATE IN CERCA DI IDENTITA’

Storie di altro calcio, football di retroguardia. Pezzi di “pallone” in cerca di riconoscimento in­ternazionale. Storie di chi ce l’ha fatta e di chi ancora ci spera. Pu­re, di chi non può farcela, per forza di cose. Eppure si ritaglia uno spazio, magari lontano dalle direttrici del calcio ufficiale. Storie differenti, l’una dal­l’altra. Paesi, popoli, minoranze, regioni, in cerca di indipendenza, tra battaglie più o meno plausibili. Di tutto, di più. E il calcio, un mezzo. Per sentirsi uniti, un corpo unico, almeno (o anche) su un campo di pallone. Tra loro e l’imprimatur ufficiale, leggi e re­gole. Che non valgono sempre, quanto me­no non universalmente. È il caso di Gibilterra, l’ultima arrivata nella famiglia europea. L’Europa sì, il mondo no, almeno per ora. L’Uefa s’è arresa, dopo una lunga battaglia, anche a colpi di carte bolla­te e tribunali sportivi. La Fifa resiste, arroc­cata sulle sue posizioni. Gibilterra si accon­tenta, ci mancherebbe. Una storia lunga ben più di un secolo (la fe­derazione è del 1895, la Nazionale del 1905, il primo campionato del 1907), finalmente ri­conosciuta a livello continentale. E pazien­za se la prima partita targata Uefa (dopo 4 a­michevoli) domenica scorsa s’è risolta con un cappotto (0-7), a opera della Polonia. Se l’importante è partecipare, per Gibilterra lo è ancora di più. Perché ci sono regine e ce­nerentole. E non puoi che essere cenerento­la se rappresenti un Paese di 30mila abitan­ti, hai uno stadio (il Victoria) privo dei re­quisiti minimi per certe competizioni, per mettere insieme una squadra devi pe­scare nel mare del più puro dilettanti­smo (eccezion fatta per Liam Walker, che un contratto da professionista se l’è meritato, a Bnei Yehuda, in Israele), tra poliziotti (compresi due dei tre fratelli Casciaro: un record, tre fratelli in nazionale), elettricisti e pompieri.
Resta la passione, incrollabile. Del resto, se guardi in faccia la Spagna e hai profonde radici britanniche, il calcio non puoi che averlo nel sangue. Ma a cer­ti livelli, tocca accontentarsi. E a Gibilterra hanno imparato pre­sto, se l’arco di tempo tra il 1949 e il 1955 è stato definito, un po’ pom­posamente, “golden era”, solo perché squadre come Real Madrid, Atletico Ma­drid e Admira Wacker erano discese tra le co­lonne d’Ercole per affrontare in amichevole una nazionale ancora lontana dal ricono­scimento internazionale.
Quello sarebbe arrivato decenni dopo, il ve­ro trionfo. Come battere la Spagna, nel più squilibrato dei derby. Perché era la Spagna il grande oppositore. Timore di ripercussioni, alla base della guerra politico-calcistica. Gi­bilterra avrebbe potuto fare da apripista, al­tri avrebbero potuto entrare dalla stessa por­ta. Baschi e Catalani, nel timore della Spagna. Altre storie, che affondano radici in antiche e mai sopite spinte indipendentiste. E altra storia, sotto il profilo calcistico. Gli basta sac­cheggiare rispettivamente l’autarchico Athletic Bilbao e il prolifico vivaio (au­tentica fucina di talenti, spesso pro­mossi in prima squadra) del Barcellona per incastonare un gruppo coi fiocchi. Di­cembre, il periodo della visibilità. Tempo di stop, per i campionati. E tempo di sfide amichevole, per le rappresentative basca e ca­talana. A riempire stadi e rinnovare il sacro fuoco del­l’orgoglio. Ma resta lo status quo, la Spagna unita. Una sola nazionale, senza speranze per altri. Poi, c’è chi si nutre di storiche istanze d’indipendenza e chi prova a scimmiot­tare senza poggiare su solide basi legate al­la storia. Perché da noi pure la Padania s’è fat­ta la sua “nazionale”: una regione che non c’è e vive nei sogni di politici (e loro seguaci) a­nimati da secessionismo da operetta. Han­no messo in piedi una squadra, che s’è rita­gliata il suo spazio nel cosiddetto Non-Fifa Football, il calcio indipendente dalla Fifa. U­na miriade di amichevoli e tornei (perfino un Mondiale, la Coppa Viva), giocati qua e là sul pianeta, tra squadre che rappresentano più o meno piccole comunità, Stati non ri­conosciuti, regioni in cerca di autonomia, etnie, minoranze, micronazioni.
Storie d’orgoglio, talvolta. E pure di divisio­ni. L’orgoglio del popolo curdo e di una re­gione che abbraccia brandelli di Turchia, I­raq, Iran e Siria. Hanno una federazione (se­de a Erbil) e una nazionale, il Kurdistan, cam­pione in carica al Mondiale degli altri (la Cop­pa Viva). Altra storia quella di Cipro e delle sue divisioni, tra isola greca e turca. La par­te turca ha la sua nazionale, non ricono­sciuta. Ma quel che la politica divide, spes­so è lo sport a unire: più significativi i passi verso l’unificazione delle federazioni (e na­zionali) calcistiche che non quelli delle due parti dell’isola.
Altre storie, di sofferenze e orgoglio. Storie a lieto fine, (almeno) su un campo di calcio. La storia del Kosovo, finalmente indipendente. Nel calcio, ce ne si accorse a margine di una sfida Svizzera-Albania. Tra le due squadre, ben 11 giocatori di origini kosovare, tra cui da Xherdan Shaqiri, Valon Behrami e Gra­nit Xhaka, atleti di talento. Firmarono u­na petizione, che ha avuto un seguito vin­cente, ancorché parziale: la nazionale ko­sovara ora può disputare amichevoli. Un primo passo, in attesa del riconoscimen­to di Uefa e Fifa. Quello della Fifa lo ottenne la Palestina, so­lo nel 1998 però, benché la federazione fos­se nata nel 1962. Storia traumatica, lo spec­chio di una terra martoriata: perdite (di vite umane, anche tra i calciatori) e distruzioni (stadi spesso rasi al suolo), impedimenti (vi­sti spesso negati dalle autorità israeliane, per i nazionali) e problemi (ritiri quasi sempre in Giordania). Eppure, una lenta e costante crescita. Fino al recente successo nella Afc Challenge Cup, con tanto di passaporto tim­brato per la Asian Cup (e questo orizzonte geografico marca l’ennesima distinzione con Israele che da sempre gioca i tornei europei, in tutti gli sport). Una duplice prima volta, su un campo da calcio. Terreno di speranza, orgoglio, riscatto.