Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 11/9/2014, 11 settembre 2014
IL RAPPORTO CON L’ASIA, LA SFIDA ITALIANA
L’addio di Montezemolo ha archiviato (almeno per ora) il dossier Ferrari. Con Marchionne ormai ben saldo al vertice di Maranello, i progetti industriali e finanziari sulla scuderia sono tornati in secondo piano rispetto alle operazioni più delicate e strategiche che aspettano il gruppo nei prossimi mesi: la quotazione di Fca a Wall Street, la razionalizzazione dei marchi conferiti al nuovo gruppo da Chrysler e Fiat, il consolidamento delle strategie di crescita in Asia e America Latina, la ricerca di un’alleanza strategica su scala globale.
Affrontare subito questi dossier è imperativo per il vertice del Lingotto, che oltre a fare buone macchine e a venderle dovrà soprattutto dimostrare al mercato la propria capacità di centrare gli obiettivi e mantenere le promesse: a Wall Street si gioca col denaro ma non si scherza sui target, una lezione che lo stesso Marchionne ha sperimentato di persona a metà maggio dopo la presentazione del piano industriale al 2018. La Borsa reagì infatti con un’ondata di vendite sul titolo Fiat (perse il 13% in una seduta) alla promessa di Marchionne di aumentare del 60% le vendite di auto e di produrre sette milioni di veicoli, arrivando al 2018 con l’utilizzo del 100% della capacità produttiva negli impianti in Italia e in Europa, oggi rispettivamente al 53% e al 66%. Spazi di manovra per correggere il tiro esistono e il successo del piano è chiaramente legato a fattori esterni alle responsabilità del Lingotto - ripresa economica e andamento del mercato dell’auto sono legati a doppio filo - ma le regole di Wall Street sono uguali per tutti: promesse facili, slogan e proclami non sono ammessi.
Ben consapevole del sentiero stretto in cui si muove, Marchionne è stato ieri molto esplicito: la costruzione del nuovo gruppo Fca andrà avanti a tappe forzate, con percorsi incrociati per Fiat, Chrysler, Alfa e Maserati - i marchi su cui si creeranno le sinergie industriali - e una corsia preferenziale per Ferrari, che pur nell’orbita di Fca (almeno per ora) continuerà ad essere gestita come unità indipendente. Parole rassicuranti e importanti, ma poichè non si tratta di nulla di nuovo il balzo segnato anche ieri dal titolo Fiat sembra dire molto di più: nell’ottica del mercato, la «nuova fase» della Fiat come quella della Ferrari sono i passi propedeutici non tanto al rilancio industriale e alle vendite di auto, ma soprattutto al progetto strategico dell’azionista di rendere Fiat-Fca un partner attraente o una preda appetibile per i grandi colossi mondiali dell’auto. Non certamente per quelli europei, anche loro alle prese con gli eccessi produttivi, gli esuberi e un mercato stagnante. Ma certamente per quelli asiatici, in particolare cinesi e giapponesi: per gruppi come Chery, Saic o Guangzhou - case con cui Fiat ha già avuto o appena avviato intese produttive - Fca è il target ideale non solo sotto il profilo tecnologico, ma anche per le tipologie di prodotto che offre nei segmenti-chiave dell’auto (la Jeep Chrysler e i furgoni Dodge da un lato, la Panda e la 500 dall’altro) e in quello dei veicoli commerciali (Iveco è alleata con Saic). In questa lista dei pretendenti, oltre ai cinesi si può aggiungere un big giapponese, la Mitsubishi, con cui Fiat già produce pick-up: non solo i rapporti tra Marchionne e i vertici della casa nipponica sono molto forti, ma insieme avrebbero già individuato forti sinergie industriali e soprattutto complementarietà dei piani di espansione sui più importanti mercati asiatici. Che questa sia l’area strategica per la Fiat c’è poco dubbio: nell’Asia-Pacifico Fca conta di passare nel giro di 4 anni da 70.000 a 300.000 unità vendute e la Cina è già oggi il quinto più grande mercato per Fiat Chrysler davanti a quelli europei (Italia esclusa). Le ragioni di questa crescita sono l’identikit della «nuova Fca»: i Suv importati da Jeep e il modello costruito in Cina, la Fiat Viaggio, a cui si aggiungeranno presto altri modelli. Se un partner per Fca è in arrivo, scommettono insomma gli analisti, sarà sicuramente da Pechino o dal Giappone. E Ferrari? Ferrari, ovviamente, non farà mai parte del pacchetto: Marchionne, come la famiglia Agnelli, sa bene che la scuderia di Maranello non solo non potrà mai produrre all’estero, ma anche che difficilmente potrà essere venduta. Ferrari è molto più di grandi macchine da corsa, è un simbolo e un’icona della tecnologia motoristica italiana: se tentassero di venderla - e non solo ai cinesi - la reazione politica e dell’opinione pubblica sarebbe probabilmente durissima e il danno di immagine per gli Agnelli enorme. E proprio per questo, la Borsa resta convinta che prima o poi arriverà lo scorporo azionario della Ferrari da Fca. Diverso il discorso per il resto del gruppo: anche se negli ultimi mesi il presidente John Elkann ha ribadito il legame tra gli Agnelli e la Fiat, resta agli atti del mercato l’intervista in cui annunciò al Financial Times i progetti di uscita della famiglia: in una strategia di crescita, «per fare della società un business più grande», ha detto Elkann al quotidiano inglese, «la famiglia è anche pronta a diluire ulteriormente la quota del 30% detenuta in Fiat da Exor», la società d’investimento controllata dalla famiglia Agnelli di cui è presidente ceo.
Ma se le idee della famiglia sono chiare, non è chiaro affatto quale impatto avranno sull’Italia e sulle fabbriche italiane di Fca sia la «nuova strategia» sia l’arrivo di un partner o di un acquirente estero: il processo messo in moto da Marchionne e dagli Agnelli non solo è irreversibile, ma non ha più ostacoli finanziari o industriali davanti al suo cammino. In Italia, i legami societari e quelli fiscali di Fiat sono stati già recisi, come fortemente ridimensionato è stato il ruolo del sindacato (e soprattutto della Fiom) nelle fabbriche: la velocità di esecuzione dei progetti di Marchionne è tale che presto anche i condizionamenti di tipo politico saranno solo un lontano ricordo. Senza contare che un eventuale partner straniero, avrà ancora meno remore degli Agnelli nel fare scelte drastiche sul Paese: o si creano le condizioni favorevoli, o le fabbriche si chiudono. E allora sarà bene che il caso-Fiat diventi presto una lezione per tutti, a cominciare dal governo e da chi dice di sostenere le riforme: in un Paese che non cresce, che non investe sulle imprese, che è lento nelle riforme e soffocato dalla burocazia e dal fisco, la perdita dell’ultima vera grande impresa industriale rischia di accelerare in modo irreversibile quel declino industriale e tecnologico che ci emargina dall’Europa e mette in fuga le nostre risorse migliori.
Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 11/9/2014