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 2014  settembre 11 Giovedì calendario

IL SELFIE AL TEMPO DEL DIVIN MARCHESE

Quando si dice la fortuna dei precursori! Cosa sarebbe diventato oggi Donatien Alphonse Francois marchese de Sade? Un irascibile frequentatore di privé di provincia? Un organizzatore di orge a pagamento? Un testardo scambista? Un regista hardcore? Un rivenditore di oggetti porno? Lo schiavo di qualche pornostar in vena di romanzarsi?
Per sua fortuna invece era nato in un secolo, il Settecento, in cui il massimo della repressione conviveva stranamente col massimo della licenza. Nel senso che ogni tanto qualcuno, per un caso o come nel caso di de Sade per motivi secondari, veniva punito esageratamente per qualcosa che molti altri continuavano a fare. Ma non ostentatamente, l’ostentazione della dissipatezza è la più moderna delle caratteristiche di de Sade, che, invece di filmarsi con lo smartphone, scriveva splendidi e minuziosi resoconti di quelle che in gran parte erano solo fantasie.
Oggi, se si scrive de Sade nella mascherina di Google, si finisce sulla cantante Sade Adu. Una bella lezione per chi come lui sacrificò la sua libertà all’urgenza di esprimerla in libri scottanti. Persino Napoleone, quando il povero marchese si era appellato a quel padrone dell’universo apparentemente spregiudicato, che aveva sterminato intere armate e sedotto autoritariamente una schiera di dame, si era affrettato a farlo rinchiudere.
Ma la vera sfortuna di quello che a lungo fu chiamato il Divin Marchese fu la suocera. Malgrado tutte le colpe del marito, la docile, mite e sgraziata Renée-Pélagie de Montreuil non lo abbandonava, sempre pronta a tacitare col denaro le vittime dell’aggressivo erotismo del consorte. Madame de Sade era uscita da una ricca famiglia di magistrati di recente nobiltà, ben lieta d’unirsi ai discendenti dalla celebre Laura di Petrarca. Il marchese era palesemente innamorato della giovane sposa e desiderava intensamente dei figli. Lei lo ricambiava con foga. Nelle lettere il marito loda il "bellissimo" sedere e l’anima di Pélagie. Ostile all’adulterio femminile, lo scrittore si vantava di aver raramente sedotto donne sposate e di non avere mai trasmesso malattie alla consorte.
La sua prima detenzione, nel 1763, per «eccessi di dissolutezza», non incrinò la solidarietà di Pélagie. A ogni arresto de Sade cercava prima di non farlo sapere alla moglie e poi di conoscere le sue reazioni. Nel 1772 la suocera era diventata da amica la sua maggiore persecutrice. Al genero non erano bastate le attrici e le ballerine, scandalosamente esibite nel castello, né una giovane mendicante frustata e seviziata. Poco dopo la nascita del terzo figlio, aveva sedotto la giovane cognata, Anne, con cui era fuggito in Italia, condannato in contumacia alla pena capitale, comminatagli in effigie. D’altronde per capire la sete di novità di de Sade, basta andare a vedere il castello di Lacoste. Guardando i malconci resti del minuscolo maniero si intuisce l’ampiezza della noia che doveva perseguitare il povero nobiluomo.
Pélagie, che oggi gli sarebbe stata accanto nelle orge, allora si comportò splendidamente. Perdonò tutto, difese il peccatore e non esitò a travestirsi da uomo pur di restargli vicino. Le sue lettere al prigioniero traboccano sempre di nostalgia e di passione. Meno espansivo, anche de Sade di tanto in tanto lasciava cadere qualche affettuosa oscenità. A tratti giungeva ad accusarla: «Avete immaginato di far miracoli riducendomi a un’atroce astinenza... è stato uno sbaglio: mi avete infiammato la mente, inducendomi a creare dei fantasmi che dovrò re-alizzare». Per il resto si comportava da padre di famiglia e temeva di non trovare marito alla figlia goffa e banale, «una buona, grossa massaia».
Era un uomo di puntiglio e reclamava dalla consorte un oggetto utile quanto difficile da trovare, un elegante fallo di marmo con cui ingannare le lunghe ore alla Bastiglia. Anche lì lo scrittore era stato tradito dalla fortuna. Il 2 luglio de Sade aveva tentato di arringare i passanti gridando che i secondini sgozzavano i prigionieri. Una menzogna, certo, in un carcere in cui era consentito arredarsi la cella e tutti potevano disporre di un cameriere personale, tranne lui, nel timore che questi diventasse troppo personale.
Nella notte del 3 luglio il marchese venne trasferito a forza e privato dello spettacolo della presa della Bastiglia. Lasciava dietro di sé non solo un prezioso parquet e mobili di pregio, ma lo strano serpente di carta delle Centoventi giornate di Sodoma, un complicato ma ben oliato meccanismo a base di sesso e sangue che sarebbe servito da sceneggiatura a Pasolini. Nel timore di una perquisizione, lo scrittore aveva coperto con caratteri minuscoli entrambi i lati di foglietti larghi dodici centimetri che, incollati tra loro, raggiungevano una lunghezza di 12 metri. Nei casi in cui era stato immischiato, le sue imputazioni erano modeste. Si era limitato a distribuire afrodisiaci in forma di confetti ad avide prostitute da cui, dopo averle frustate promettendo aumenti di tariffa, si era fatto equamente frustare. Ben lungi dall’emarginare il suo patibolare servitore, lo aveva sempre coinvolto nelle orge. E proprio in questo, che oggi sarebbe stato motivo di sicura stima, stava il punto debole. Nel secolo dei Lumi la sodomia, malgrado fosse diffusamente praticata, era un reato grave, punibile addirittura con il rogo. Per i legislatori come per il marchese, che Fatto venisse perpetrato su uomini o su don- ne era insignificante.
Quel che contava era averlo praticato, il che creava intorno alla sodomia quell’aura sulfurea che spinse il prigioniero a metterla al centro delle sue opere. Come se non bastasse, de Sade, raccontando le peripezie di due fanciulle per breve tempo illibate - Justine o le disavventure della virtù e Storia di Juliette, ovvero la prosperità del vizio - aveva rivelato una verità oggi nota a tutti: la virtù non rende. Nessuno invece si sarebbe sognato di rimproverargli il fatto che la sua ultima amante, figlia di una inserviente del manicomio di Charenton, fosse giovanissima. Lì, sotto la protezione del direttore, de Sade visse altri undici anni dirigendo le rappresentazioni del teatro degli alienati, apprezzate dal raffinato pubblico parigino. Aveva capito troppo tardi quanto fosse preziosa l’oscurità e chiese di essere sepolto in un bosco: «Una volta ricoperta la fossa, vi saranno seminate delle ghiande, così che in seguito, quando il bosco sarà tornato folto come prima, le tracce della mia tomba scompaiano dalla faccia della terra».