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 2014  settembre 11 Giovedì calendario

COSÌ MI SONO INFILTRATO DENTRO AL QAEDA


L’avambraccio di Morten Storm, delle dimensioni del tipico arrosto natalizio nordico, è coperto da un tatuaggio raffigurante il martello di Thor ed è stato usato più spesso di quanto il proprietario non ricordi. Da adolescente era un biker specializzato nel pestaggio di appartenenti al gruppo danese Hell’s Angels. Ancora oggi, quando una persona osa sfidarlo non si tira indietro. «Odio i prepotenti. Chi pensa di poter stendere Morten Storm deve poi affrontarne le conseguenze». L’anno scorso ha preso in considerazione l’ipotesi di calcare il ring nella categoria supermassimi. Il tatuaggio se lo era fatto fare prima dell’ultima missione, nella sua precedente vita di spia. Era diretto in Yemen per incontrare il capo di Al Qaeda nella penisola araba con l’obiettivo di farlo fuori e temeva di essere eliminato a sua volta. «E se fossi morto» racconta «volevo avere qualcosa che mi ricollegasse alla mia storia, alle mie radici vichinghe».
Dall’11 settembre in poi, il sacro Graal per i servizi segreti occidentali è sempre stato avere una talpa affidabile nel cuore di Al Qaeda. Per cinque anni l’agente Storm lo è stato. Non ne ha mai avuto le sembianze – 130 chili di muscoli scandinavi ricoperti da peli chiari non corrispondono esattamente all’identikit dello jihadista tipo – ma in un certo senso questo era proprio il suo punto di forza. «Dentro ad Al Qaeda pensavano: “Perché mai i servizi segreti occidentali dovrebbero mandarci un uomo bianco?”. Probabilmente è per questo che non mi hanno fatto troppe domande». Prima di offrire i propri servizi in qualità di spia, Storm era stato veramente un mujaheddin. Dallo Yemen alla Somalia fino alle moschee di Birmingham e Copenaghen, veniva accolto come un fratello e utilizzato come un canale sicuro a cui affidare informazioni e materiale. Le informazioni che ha fornito hanno condotto alla morte di 30 jihadisti e all’arresto di altri 30. Lo abbiamo incontrato in uno studio fotografico di Manchester. Nel 2011 era ancora considerato un bene prezioso dall’Mi5, dai servizi segreti danesi e dalla Cia, ma i rapporti di Storm con queste tre organizzazioni si sono chiusi in malo modo. I britannici gli hanno offerto un accordo che lo avrebbe aiutato a mettersi al sicuro, ma prevedeva troppe condizioni. Avrebbe dovuto separarsi dai propri figli e probabilmente sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica. Ha rifiutato e adesso si ritrova solo.
Nel 1997 Storm recitò per la prima volta la shahada diventando un fervente musulmano rispondente al nome di Murad. Nel giro di pochi mesi si ritrovò in un seminario finanziato dai sauditi nello Yemen, quattro anni prima degli attentati dell’11 settembre e otto anni prima che Anwar al-Awlaki si recasse nello stesso centro di addestramento. Questo vantaggio temporale, sebbene abbia trascorso solo nove mesi in Yemen durante il suo primo viaggio, fu decisivo per crearsi una reputazione. «Conobbi Al Qaeda e tutti i mujahidin prima di al-Awlaki. Ero uno di loro». L’imam era smilzo, di carnagione scura, portava gli occhiali ed era dotato di ars oratoria. Non avrebbe potuto essere più diverso dal fratello danese. Eppure avevano qualcosa in comune: alAwlaki aveva trascorso la gioventù nel Maryland e gli anni del college in Colorado. Avevano entrambi assaporato la decadenza dell’Occidente prima di rivoltarsi contro quest’ultimo.
Parla bene inglese e se la cava con l’arabo, entrambe lingue che ha appreso perlopiù da autodidatta. Ride facilmente. Sembra un orsetto e si definisce una persona gentile. È difficile credere che abbia tradito un amico vendendolo alla Cia, sapendo che il presidente Obama ne aveva autorizzato l’omicidio. Eppure lo ha fatto. Ed è a questo che deve la sua notorietà, il motivo per cui ha appena pubblicato un libro ed è oggetto di minacce di morte su tutti i social media. L’amico non era Osama bin Laden, ma colui che, poco dopo la morte di quest’ultimo, era diventato il nemico pubblico n.1 degli Stati Uniti: Anwar al-Awlaki, collegato a cinque importanti attentati contro Usa e Gran Bretagna, uno dei quali si era quasi concluso con l’esplosione di un jumbo sopra Detroit. Storm era l’unica persona che avrebbe potuto condurre i droni americani da al-Awlaki, e afferma di averlo fatto inviandogli una chiavetta Usb nella quale era stato nascosto un dispositivo di localizzazione. La chiavetta era stata ritirata da un corriere a San’a’, la capitale dello Yemen. Tre settimane dopo al-Awlaki era morto. «L’ho organizzato io» racconta. In precedenza Storm aveva procurato al suo amico imam jihadista una bella moglie bionda. In seguito, nel periodo successivo all’omicidio di al-Awlaki chiuse con la Cia. Voleva un riconoscimento e i 5 milioni di dollari che sostiene gli fossero stati promessi. Voleva anche restare in vita e cominciava a temere che gli americani lo volessero fare fuori.
Questo timore non era infondato. Il suo autista yemenita fugge, va a Hong Kong e prega Storm di raggiungerlo perché gli deve parlare, ma non può farlo al telefono. Così, dopo 14 ore di volo, si sente dire che anche l’autista era stato arruolato dalla Cia e gli era stato detto che avrebbe dovuto aiutare i servizi a eliminare Storm tramite un attacco con droni. Un altro agente gli disse che il suo era il mestiere più pericoloso del mondo. Se per caso non ne era convinto, durante il suo ultimo viaggio in Yemen si imbatté in un altro ex jihadista sorpreso a collaborare con gli americani: il traditore era stato crocifisso. «Ero terrorizzato. Ma quando sei con quella gente non devi darlo a vedere. Amano morire, e se sei con loro e capiscono che sei spaventato all’idea della morte, si chiederanno il perché».
Morten Storm è uno strano mix di ingenuità e coraggio. Per certi versi è una fonte attendibile di una storia assurda e si arrabbia quando sente che la gente insinua che sia tutto frutto di un’invenzione. Tre giornalisti danesi del quotidiano Jyllands-Posten hanno scandagliato le sue email, verificato i suoi contatti e si sono meritati un premio europeo per questo lavoraccio. Altri due giornalisti hanno ripetuto lo stesso percorso lavorando alla sua biografia – L’ultimo infiltrato – che è appena uscita. Ciononostante, sta ancora cercando di fare ordine nella sua testa. «È spaventoso sapere in che cosa sei stato coinvolto. È questo che a volte faccio fatica a capire: la portata di tutta la vicenda. Queste persone erano la storia, e nei prossimi 50 anni questi saranno i nomi che compariranno sui libri di storia. Mi sembra pazzesco».
È originario di Korsor, un centinaio di chilometri a ovest di Copenaghen, dove immigranti e scapestrati vivono una versione ridotta del sogno scandinavo. Il padre naturale di Storm era come se non esistesse e il patrigno era violento. A soli 13 anni aveva già commesso una tentata rapina a mano armata e a 16 abbandonò la scuola. Entrò a far parte dei Bandidos, la principale banda rivale degli Angels, dimostrando di essere un valido picchiatore. Entrò anche in giri di prostituzione e contrabbando di alcolici, stupefacenti e sigarette, finendo per due volte in galera. A 21 anni incontrò l’Islam leggendo un libro che parlava del profeta
Maometto preso in biblioteca e restò folgorato. «Sono una persona che quando crede in qualcosa non si guarda indietro. E così è stato con l’Islam. Ero convinto che fosse la verità, la religione di Dio e mi ci sono buttato completamente. Abbiamo tutti bisogno di far parte di qualcosa. È insito nella nostra natura di animali da branco – umani da branco – e, considerata la mia infanzia travagliata, ritengo che l’Islam abbia colmato un vuoto, mi ha dato un senso di appartenenza». E poi le donne. Specialmente le donne. «Anwar le amava». E quando voleva una terza moglie che lo seguisse nel deserto, Storm sapeva a chi rivolgersi. L’infiltrato sapeva il tipo di candidata che gli sarebbe piaciuta. Trovò Irena Horak su una pagina Facebook di fan di al-Awlaki. In passato era stata velocista per l’Università di Zagabria e assidua frequentatrice di feste e si era convertita all’Islam dopo aver avuto il cancro. La malattia aveva comportato un intervento di isterectomia, ma non aveva cambiato il suo aspetto né la sua chioma bionda che mostrò al predicatore in un breve video che segue un altro in cui si presenta col capo coperto. Poi il velo nero viene rimosso «così può vedere i capelli che le ho descritto... spero che siano di suo gradimento». Qualche mese dopo, dal nascondiglio di al-Awlaki, la donna invia alla moglie di Storm un elenco di cose da acquistare, tra cui una minigonna jeans «attillata e molto corta».
All’epoca al-Awlaki era l’uomo più ricercato da Washington, in quanto era subentrato a Bin Laden a capo di Al Qaeda. E Storm aveva scaricato la fede islamica tanto velocemente quanto l’aveva abbracciata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è arrivata quando stava per imbarcarsi su un volo per la Somalia nel 2006 per intraprendere per la prima volta la guerra santa vera e propria. Lungo il tragitto verso l’aeroporto ricevette una telefonata in cui gli dicevano di non preoccuparsi perché l’aeroporto di Mogadiscio era circondato. Andò su tutte le furie. Se Allah stava guidando la sua vita, perché non gli permetteva di combattere la guerra santa? Tornò a casa e cercò «contraddizioni nel Corano» in Google, che gli propose un milione di risultati.
In seguito i dubbi hanno affollato la sua mente. La sua fede crollò, ma non lo disse a sua moglie, Fadia. Chiamò invece i servizi segreti danesi. Quando incontrò gli agenti in un hotel nei pressi di Copenaghen, li lasciò senza parole ordinando una birra e un panino a base di carne di maiale. Lo accolsero a braccia aperte e nel 2011 era una spia di successo. C’erano voluti quasi 10 anni per scovare Osama bin Laden dopo gli attentati dell’11 settembre. L’agente infiltrato Storm rappresentava la possibilità di trovare al-Awlaki molto più velocemente, ed è per questo motivo che è stato a lungo oggetto del contendere tra Cia, Mi5, Mi6 e i loro presuntuosi colleghi danesi, il Pet.
Tutti, afferma Storm, erano incredibilmente ignoranti in merito ai meccanismi interni del fondamentalismo islamico. Avevano dei modi diversi di affrontare il problema. «Gli americani si presentavano sempre con la valigetta piena di soldi» racconta. Volevano indizi, risultati, teste servite su piatti d’argento e non si curavano molto delle sottigliezze legali. Ai britannici, invece, interessava «di più raccogliere informazioni», ma avevano pochissimi soldi e un rispetto esagerato delle regole. Non potevano sopportare nemmeno vagamente l’idea di finanziare il terrorismo, quindi tra le loro mani non si vedevano mai buste piene di contanti. Al loro posto erano soliti offrire weekend in campagna. Quanto ai danesi, Storm rimase sbalordito: «Per loro era una sorta di avventura, l’emozione di trovarsi al tavolo più importante. Era come una festa, una grande festa».
Come partecipare ai lunghi debriefing in giro per il mondo a spese dei contribuenti, dove si concedevano cocaina, puttane e tutto l’alcol che volevano. «Facevano sempre così, a Bangkok come in Europa. Anche se dovevo incontrare persone appartenenti ad al-Shabaab in Kenya, più tardi la sera incontravo i miei intermediari danesi in un posto chiamato Casablanca o in altri club di Nairobi, dove si potevano trovare prostitute. Solo col tempo ho capito quanto fossero corrotti, quando iniziarono a chiedermi il 10 per cento dei miei compensi».
Oggi ha 38 anni, si è sposato due volte e si è separato da entrambe le mogli così come dai suoi tre figli, ma vive in Inghilterra, o forse in Australia, per stare loro vicino. Stringe e apre i suoi pugni enormi, mettendosi in bocca qualche acino d’uva. «Il mio sogno è trasferirmi lontano da tutto e vivere in un posto molto tranquillo» afferma. Magari in Scozia, oppure nel Borneo. Ha investito la maggior parte dei suoi averi in attrezzature per sport all’aperto e gli piacerebbe vendere escursioni in canoa lungo un fiume solitario dove nessuno che lo conosce possa raggiungerlo. Ma è consapevole che probabilmente resterà solo un sogno. «Un bel giorno la nostra fortuna finisce e quando questo accade, si muore. La cosa non mi spaventa. Sono prudente, ma non voglio passare la mia vita a nascondermi, perché significherebbe che i terroristi hanno vinto».