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 2014  settembre 11 Giovedì calendario

WALL STREET VAL BENE UNA FERRARI


Se il licenziamento su due piedi di Luca Cordero di Montezemolo dalla presidenza della Ferrari vi ha stupito, non avete ancora idea di che cosa succederà dopo il 13 ottobre. Quel giorno Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, e John Elkann, presidente e, soprattutto, rappresentante dell’azionista di maggioranza, suoneranno la campanella nella sala contrattazioni della borsa di New York. Dopo il primo rintocco gli investitori di tutto il mondo cominceranno a comprare (si spera) e a vendere (si spera, poco) le azioni della Fca, multinazionale dell’auto formata da Fiat e da Chrysler. Dopo il suono di quella campanella cambierà tutto. In quell’istante il licenziamento di Luca di Montezemolo sarà ricordato come l’ovvio e necessario taglio con un passato fatto di famiglie patriarcali che nominano manager, seppur bravi, perché sono amici di famiglia. In quell’istante il licenziamento sembrerà essere stato il definitivo addio alla Vecchia Europa che sarà anche elegantissima e raffinatissima ma dove Fiat ha appena il 3,3 per cento di quota di mercato (2013) e che con le dure regole del gioco di Wall Street ha ben poco a che fare. Eppoi non è stato Marchionne a dire «in una grande azienda chi comanda è solo. La responsabilità condivisa non esiste»? Tantopiù non esiste con uno come Montezemolo con il quale non ha nulla in comune.
«Bisogna far dimenticare, in qualche modo, che la Fca ha origini europee perché l’Europa, a differenza degli Usa, è in un declino strutturale» spiega Giuseppe Berta, che insegna storia dell’industria alla Bocconi ed è uno dei più autorevoli «fiattologhi» d’Italia. «E questo per tre motivi: le politiche di austerity della Ue, il calo delle nascite, che non fa aumentare i consumi, e il fatto che da noi c’è il consumatore più esigente del mondo. Per di più» aggiunge «gli americani hanno uno sguardo diffidente sia verso la Chrysler, perché è stata a un passo dal crack, sia verso la Fiat, perché l’ha comprata con i soldi delle loro tasse».
Dopo il suono della campanella di Wall Street anche Marchionne dovrà cambiare. Dovrà abbandonare l’atteggiamento molto renziano di annunciare cambiamenti epocali, fissare obiettivi mirabolanti e promettere aumenti di produzione favolosi senza mai riuscire (per colpa sua o della crisi è da vedere) a raggiungerli. Non potrà più promettere di lanciare, in 10 anni, 64 nuovi modelli e poi lanciarne 33. «Il momento della verità arriverà poco prima del 13 ottobre» spiega Riccardo Ruggeri, ex top manager del gruppo di Torino e oggi notista del quotidiano Italia Oggi oltre che autore di diversi libri sul Lingotto. «Il momento clou sarà quando gli advisor decideranno il prezzo del titolo Fca. Quel giorno si capirà quanto vale la Fiat e, di conseguenza, quanto vale la Ferrari. E questa valutazione sarà fatta, oltre che sui dati di bilancio, sulla base di tre parametri: come va il Brasile, di quanto saliranno le vendite in Cina e, soprattutto, quando e se l’Alfa Romeo riuscirà a vendere 400 mila auto l’anno a un prezzo medio di 60 mila euro l’una, come promesso. Tutto questo significa che dopo il 13 ottobre Marchionne inizierà un mestiere che non conosce: fare prodotti».
Se per quanto riguarda gli accordi in Cina e le vendite dell’Alfa siamo nel campo delle promesse, i dati del Brasile sono appena usciti e sono drammatici. Ad agosto Fiat ha venduto 56.185 veicoli conquistando una quota di mercato del 21,6 per cento. Rispetto ad agosto 2013 il mercato brasiliano è cresciuto del 3,39 per cento mentre le vendite Fiat sono scese del 14,8. Nei primi 8 mesi dell’anno in Brasile si sono vendute 2 milioni e 124 mila auto, 457 mila erano a marchio Fiat. Rispetto ai primi 8 mesi del 2013 il mercato è cresciuto del 12,5 per cento ma le vendite Fiat sono scese del 10,9. Per inciso: in Brasile, in 8 mesi, sono state vendute appena 4 Alfa Romeo.
«Sì, sono numeri critici, ma in questo caso» spiega Berta «vale la prova del budino, nel senso che se i piani saran no realizzati lo vedremo solo intorno al 2017». Ohibò: 2017! Guardacaso è l’anno in cui Marchionne ha detto che lascerà la Fiat. E, guardacaso, è l’anno prima della conclusione del piano industriale annunciato a maggio a Detroit e, forse, per allora, sarà anche più chiaro quale sarà il destino della Ferrari postmontezemoliana. Per allora, infatti, il lavoro che il manager con il pullover ha iniziato quel lontano primo giugno del 2004 sarà virtualmente concluso e la Fca sarà una solida realtà e non solo una bella promessa e potrebbe non avere più la necessità di controllare Maranello per compensare le perdite dell’Italia. D’altra parte a Vittorio Ghidella, ex amministratore delegato del gruppo, venne assegnato il diritto di comprare il 40 per cento della Rossa (diritto poi riacquistato dal Lingotto con un guadagno per il manager di 80 miliardi di lire esentasse) e quando Cesare Romiti lasciò la Fiat gli venne consegnata la Rcs. Perciò la domanda è: che cosa ne sarà della Ferrari quando Marchionne lascerà la Fiat? I giornali del Lingotto che parlano della necessità di una «valorizzazione» di Maranello e che lanciano Marchionne alla presidenza sono utili indizi per immaginare quale sarà il futuro della Rossa.
Ma fino ad allora Marchionne dovrà gestire la difficile convivenza tra le due anime del gruppo, quella americana, che guadagna 1,9 miliardi di dollari (2013) e quella italiana, che perde 911 milioni. Dovrà far digerire questo squilibrio (eufemismo) a fondi d’investimento yankee e all’opinione pubblica Usa che, non a torto, è convinta che i 73.688 operai americani lavorino per pagare lo stipendio ai 62.108 operai italiani che lavorano in 5 fabbriche in 4 delle quali c’è la cassa integrazione. Per questo, quel 13 ottobre, non bisogna chiedersi per chi suona la campana. Suona per l’Italia.