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 2014  settembre 10 Mercoledì calendario

PIANGO MIO FIGLIO JIDAHISTA

[Intervista a Carlo Delnevo, padre di Giuliano] –

«Giuliano mio, ma che fai? Torna indietro, scappa». Cade la linea e Carlo Delnevo non parlerà mai più con suo figlio.
Era l’11 giugno 2013, e Giuliano aveva i nemici a 100 metri di distanza. Dal cellulare si potevano sentire i rumori della guerra. Il giorno dopo sarebbe morto combattendo come jihadista contro il regime di Bashar al-Assad, vicino ad Aleppo, in Siria. Oggi il padre, per risentire la sua voce, guarda alcuni vecchi video su YouTube, come quello in cui recita le Costellazioni del Corano, e si commuove.
A 19 anni, Giuliano, genovese e cattolico, si è convertito all’Islam ed è diventato Ibrahim. Quattro anni dopo è partito per la Siria per combattere al fianco degli islamisti nella Legione degli stranieri, comandata da un ex soldato georgiano, Omar il ceceno.
I video diffusi dall’Isis – lo «Stato Islamico» autoproclamatosi tra la Siria e l’Iraq del Nord – dove un boia dall’accento britannico decapita i giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, hanno riacceso l’attenzione sul jihadismo di origine europea.
Incontro Carlo Delnevo alla Spianata di Castelletto, una terrazza panoramica da cui si vede quanto è bella Genova. Gli chiedo perché, secondo lui, il suo Giuliano, un ragazzo italiano, ha scelto la jihad. «Perché la Siria e la difesa dei musulmani erano diventate le sue ragioni di vita», mi dice. «Se avessi capito il suo piano gli avrei impedito di partire».
Che cosa le ha detto suo figlio prima di scappare in Siria?
«Una frottola: che sarebbe andato in Turchia. Qualche giorno dopo sua moglie (una marocchina che aveva conosciuto su Internet, ndr) mi ha inviato un sms: “Ibrahim is fighting in Siria, Ibrahim sta combattendo in Siria”. Era la fine del 2012 e c’era la guerra civile. Ho cercato di contattarlo per telefono, mentre la mia ex moglie, sua madre, è partita per la Siria, sperando di trovarlo e riportarlo a casa. Ma Giuliano non si è fatto trovare. Aveva scelto: voleva fare lo shahi-d, il testimone della fede, il martire. L’ho capito troppo tardi che il suo sogno era andare a combattere contro chi “uccideva i musulmani”, contro Assad».
E a lei, al telefono, che cosa ha detto?
«“Papà sono felice, la Siria è la mia via”. Nell’Islam la frase “è la mia via” significa “è il mio destino”. Giuliano aveva sposato la parte dell’Islam più radicale. Negli anni aveva maturato l’idea che la vita terrena è effimera, e per guadagnarsi il paradiso aveva scelto il martirio. Un giorno mi ha detto: “Sai papà, ieri ho abbracciato un compagno che si è fatto saltare in aria tra le file degli alauiti (il gruppo religioso al quale appartiene il presidente siriano Assad, ndr)”. Io morivo di paura: “Giuliano tu non farlo, ti prego”».
Come è morto?
«Combattendo vicino ad Aleppo. Era l’alba del 12 giugno, i militari di Assad hanno ferito un suo amico somalo, che è finito a terra. Giuliano, senza pensarci, è uscito dal rifugio per trascinarlo al riparo. I soldati governativi, che continuavano a sparare, l’hanno colpito. Giuliano è morto per salvare un fratello».
Chi le ha dato la notizia?
«Mi ha chiamato il comandante a cui Giuliano aveva affidato il cellulare, sapeva che stava rischiando la pelle. Quel giorno, prima di andare al fronte, gli disse: “Se muoio, chiama mio padre, digli che l’ho amato e che, se si converte, staremo per sempre insieme”».
E lei?
«Sono scoppiato in un pianto disperato. È impossibile spiegare che cosa ho provato, né come mi sento oggi. È il dolore più grande che un essere umano possa provare. Lo so che qualcuno può pensare che piangere per la morte di un jihadista sia meno dignitoso rispetto alle lacrime per qualsiasi altro figlio morto. Ma Giuliano non era un terrorista, per me rimane un “eroe romantico”».
Eroe?
«Sì, perché era uno spirito nobile, sempre guidato da grandi ideali. Poi, certo, avrei preferito che avesse scelto di portare medicinali con una missione umanitaria, piuttosto che andare ad aiutare i musulmani oppressi con un kalashnikov».
Come è avvenuta la conversione di suo figlio? Che cosa lo ha spinto?
«A diciotto anni ha lasciato l’istituto nautico. Senza consultarci, si è trasferito ad Ancona dal fratello, più grande di lui di quindici anni. Si è messo a fare l’apprendista elettricista e sul lavoro ha incontrato dei ragazzi del Bangladesh, musulmani. Giuliano era cattolico, ma dopo averli conosciuti si è convertito all’Islam, ha cambiato il suo nome in Ibrahim e ha trovato una pace che aveva perso».
Lei come l’ha presa?
«All’inizio come un tradimento. Che cosa c’entrava l’Islam con noi? Ero quasi offeso. Ma Giuliano non aveva intenzione di cambiare idea. Mi mandava i versetti del Corano via sms. Un giorno mi scrisse: “Papà, questa religione è bellissima”».
Preferiva Giuliano o Ibrahim?
«Tutti e due. Una volta musulmano, però, era diventato più rigoroso, con una spiritualità ancora più profonda. Se prima, per esempio, capitava che tornasse a casa dopo una serata in discoteca un po’ brillo, dopo che si è convertito non l’ha più fatto. Rispettava ogni regola della religione con un rigore quasi clinico. Prendeva tutto alla lettera: no musica, no donne…».
Anche lei si è convertito?
«Mi sono avvicinato all’Islam. Dopo la morte di Giuliano ho molto meditato sulla conversione e ho iniziato a studiare la religione, che in realtà ha tantissime cose in comune con il cattolicesimo».
Hanno scritto che sui suoi diari, ritrovati in Siria, Giuliano raccontava di essere deluso della vita da jihadista.
«Balle. Non ha mai scritto nulla del genere. Dicono tante bugie su questa storia. Ora i diari li ha la Procura che sta indagando su di lui».
Ho letto che credete che possa essere ancora vivo.
«C’è una possibilità su un milione che sia rimasto ferito e sia in un carcere siriano. E visto che Giuliano era un cittadino italiano, chiediamo al governo di fare chiarezza sulla vicenda».
Che cosa pensa delle decapitazioni dello Stato Islamico?
«Penso che siano cose terribili. Giuliano avrebbe detto che noi occidentali, giustamente, ci indigniamo quando ci toccano, ma dimentichiamo purtroppo quello che facciamo noi».
C’erano altri italiani con lui?
«No, me lo avrebbe detto. C’erano somali, sauditi, libici…».
Che cosa gli direbbe se potesse rivederlo?
«Non perderei tempo in parole, lo abbraccerei con tutta la mia forza e non lo lascerei più andare via da me».