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 2014  settembre 11 Giovedì calendario

CEFALONIA 1943, LA TRAGEDIA NON È SOLO NEL NUMERO DI CADUTI

Oltre 70 anni ci separano dall’8 settembre 1943 e dall’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani. Una data cruciale per gli esiti del secondo conflitto mondiale sul territorio della penisola e per le dinamiche che porteranno alla Liberazione del 1945. L’Italia del 1943 è un Paese diviso politicamente e geograficamente, attraversato da eserciti stranieri e segnato da una dilaniante guerra civile; una nazione allo sbando, travolta dagli eventi, dove la fuga dalle responsabilità e la dissoluzione delle catene di comando prende il sopravvento in buona parte della classe dirigente.
Mussolini dal 1940 aveva promosso una guerra parallela, ambiziosa e velleitaria: gli stessi nemici della Germania nazista perseguiti e combattuti con forze italiane e obiettivi autonomi. Una breve illusione, un fallimento sin dall’aggressione alla Grecia dell’ottobre 1940 e la successiva dislocazione di truppe e mezzi nel Mediterraneo. La notizia dell’armistizio giunge inaspettata, senza indicazioni su comportamenti e conseguenze: un esercito senza istruzioni, soldati abbandonati al proprio destino o aggrappati alle scelte dei responsabili di divisioni dislocate nei fronti più diversi. È il caso delle stragi ai danni di militari italiani di stanza nelle isole dell’Egeo sulle quali nell’ultimo decennio si è riaccesa un’attenzione di studi, riflessioni e giudizi anche dai vertici delle istituzioni. Un volume fresco di stampa (Né eroi, né martiri, soltanto soldati. La divisione Acqui a Cefalonia e Corfù, settembre 1943, a cura di Camillo Brezzi, Mulino, pp. 356, € 28) dà conto di un clima nuovo, aperto a interpretazioni non faziose o strumentali e figlio di ricerche che da più prospettive hanno spazzato via luoghi comuni o semplificazioni di comodo.
Le stragi contro i militari italiani fanno parte del quadro del conflitto mondiale, interrogano tanto le responsabilità del regime quanto le strategie di ricostruzione del dopoguerra. Il punto principale risiede nella centralità del biennio 1943-1945, nel costo della scelta fondamentale di stare da una parte o dall’altra e nella presenza di soggetti plurali, forze e culture che contribuiscono a rafforzare un tessuto comune di solidarietà e comportamenti in grado di indicare la strada della rinascita. I documenti, i dispacci, le lettere dalle isole lontane aiutano a definire un contesto mutevole.
Prima le notizie da comunicare a casa, sul rancio insufficiente: «Circa il mangiare abbiamo fatto una settimana di pastasciutta, dato che facevamo la mensa per noi. Purtroppo ora è finita. Ma non fa niente», scrive Emilio Bolpin alla madre il 28 marzo 1943, «come ci siamo abituati a dire qui. Ci consoliamo con le uova. Il vinello poi è squisito ma non ne faccio troppo uso anche perché costa caro: un bicchiere 6-7 lire! In questo periodo sono stato sempre occupato. Poi ho imparato a farmi dare il giusto, pesare bene il riso, olio, conserva e tagliare senza sbriciolarlo tutto il formaggio. Quasi un perfetto venditore di generi alimentari». Poi le informazioni sull’andamento del conflitto, sulle attese interminabili, sulle notizie contraddittorie che giungono in periferia.
Il libro è ricco di informazioni e punti di vista: la narrazione delle missioni alleate dalle fonti inglesi e le lettere dei soldati italiani; il destino degli internati della divisione nei Lager sovietici e la ricostruzione delle tappe di una memoria difficile nel dibattito pubblico italiano e nei Paesi più coinvolti in una pagina così tragica della nostra storia: la Germania e la Grecia. Nei saggi conclusivi il confronto sulla stagione delle origini e sulle presunte morti e resurrezioni della patria non è scisso dagli approfondimenti sulla ricerca delle responsabilità individuali nell’itinerario della giustizia penale tra l’Italia e la Germania attraverso il lungo dopoguerra. Uno studioso come Giorgio Rochat mette ordine nelle cifre e nelle ipotesi avanzate negli ultimi anni per tracciare un bilancio che è anche un punto di equilibrio sull’intera vicenda e sul suo significato: «Calcolo circa 3800 italiani caduti sull’isola e 1360 morti in mare. Cifre approssimative, credo siano oggi le più credibili e documentate, ma concordo con Meyer che non sarà possibile arrivare a cifre sicure; non è però il computo preciso dei morti che ci può dare la dimensione della tragedia di Cefalonia».