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 2014  settembre 10 Mercoledì calendario

COSÌ ABBIAMO SALVATO IRINA DALLA GOGNA DEI SEPARATISTI

Irina Dovgan ne era sicura: non sarebbe sopravvissuta al calvario in mano ai separatisti filo-russi. Si era fatta forza per prepararsi a morire. Era stata catturata con il sospetto che avesse aiutato l’esercito ucraino, impegnato a bombardare le postazioni nemiche, segnalando i bersagli per la sua artiglieria.
Era stata picchiata, sottoposta a finte esecuzioni, minacciata anche di stupro e umiliata.
Poi, in una orribile manifestazione di «giustizia popolare», è stata avvolta in una bandiera ucraina e piazzata su un marciapiede di Donetsk con in mano un cartello: «Lei uccide i nostri figli». I passanti le hanno dato schiaffi e calci, le hanno lanciato pomodori e le hanno sputato in faccia.
La foto di questa scena di abuso pubblicata dal «New York Times» ha fatto il giro del mondo, suscitando reazioni oltraggiate e diventando il simbolo dell’odio ormai cieco che il conflitto nell’Est ucraino ha scatenato tra vicini che avevano vissuto insieme in pace. La storia delle torture di Irina ha provocato una valanga di commenti in Rete, tra chi temeva per la sua sorte e altri che dicevano che si meritava di venire trattata così.
«È stato veramente terribile», dice oggi Irina, 52enne madre di due figli. Possiede un piccolo salone di bellezza e dice di aver simpatizzato per l’esercito ucraino, ma nega con veemenza di aver corretto il tiro dei suoi cannoni. «Avevo detto addio alla mia vita e a un certo punto desideravo che mi sparassero per farla finita con questo orrore. I passanti si fermavano per picchiarmi e darmi calci. Una donna anziana mi ha dato colpi con il suo bastone. Altri sputavano, e poi scattavano foto ricordo con il telefonino, ridendo e insultandomi».
Il caso di Irina Dovgan non è unico. I cinque mesi di combattimenti nell’Est ucraino sono stati segnati da diffuse violazioni dei diritti umani, da entrambe le parti. Si stima che i prigionieri e gli ostaggi siano centinaia. Ci sono stati casi di torture e di esecuzioni sommarie. Diversi giornalisti sono stati fermati e picchiati, e almeno sei cronisti sono stati uccisi mentre facevano il loro lavoro. I peggiori abusi sono stati commessi dai separatisti. «Gli insorti filo-russi commettono regolarmente crimini orribili», dice il rapporto di Human Right Watch. Il documento sugli abusi commessi dai ribelli sostiene che «ci sono solidi motivi per essere seriamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di tutti quelli che vengono trattenuti dalle forze ribelli nell’Est ucraino». Solo ad agosto i ricercatori di Human Right Watch in quella regione hanno documentato 20 casi di civili rapiti dai ribelli, e hanno intervistato 12 persone che hanno raccontato che gli uomini che li avevano catturati li hanno picchiati, presi a calci, colpiti con coltelli, bruciati con sigarette e sottoposti a finte esecuzioni.
Dopo quattro giorni di prigionia di Irina, il reporter del «New York Times» che aveva assistito alla sua gogna pubblica, mi ha chiesto di cercare di aiutarla contattando il battaglione Vostok, la milizia separatista che si pensava la tenesse prigioniera. Io e il fotografo Dmitry Beliakov abbiamo portato il suo caso ad Alexandr Khodakovsky, il comandante del Vostok che avevamo conosciuto a maggio quando avevamo seguito i suoi uomini e fummo catturati in una furiosa battaglia con le truppe ucraine che aveva lasciato numerosi morti e feriti. Due giorni prima Khodakovsky, un ex ufficiale anti-terrorismo molto pragmatico, mi aveva detto di aver trovato «deplorevole» la parata di prigionieri di guerra inscenata dai separatisti nella piazza Lenin di Donetsk, durante la quale la gente arrabbiata urlava loro insulti. Mi ha detto di aver visto le fotografie della gogna di Irina Dovgan, ma di non sapere nulla di lei. Ha promesso che avrebbe indagato, e poche ore dopo, al calar della notte, mi ha convocato alla base del Vostok.
Insieme con Belyakov siamo stati portati nella stanza di comando, dove Khodakovsky, con la pistola sul fianco, era circondato dai suoi uomini, chinati sulle mappe della regione, facendo telefonate e distribuendo ordini. Pochi secondi dopo un uomo robusto in mimetica ha portato nella stanza Irina, piegata dal terrore. «La libero», ha detto Khodakovsky: «Non sapevo fosse tenuta qui. Qualunque cosa possa aver fatto, qualunque prova ci possa essere contro di lei, non avrebbe mai dovuto venire trattata come è stata trattata. È inaccettabile. State sicuri che i colpevoli verranno puniti. Non tollererò questo tipo di trattamento».
Abbiamo portato Irina, sotto shock e piena di segni di pestaggi, al nostro albergo, dove ha potuto per la prima volta in cinque giorni avere un pasto vero e farsi una doccia. Su ordine del comandante Khodakovsky i suoi carcerieri le hanno restituito i suoi averi e il giorno dopo le hanno fornito una scorta per riportarla a casa, che era stata saccheggiata, a recuperare il suo cane e i gatti. In seguito lei ha lasciato la zona del conflitto, rifugiandosi in un posto più sicuro dove ha ritrovato la sua famiglia.
La reazione al mio intervento per salvarla è stata a sua volta sintomatica del livello di politicizzazione e divisione nelle opinioni in entrambi gli schieramenti, lacerando questo Paese una volta pacifico. «Irina era stata torturata e lo stronzo Franchetti è un amico dei terroristi», ha scritto un nazionalista ucraino in Rete. Dall’altra parte, il giorno dopo il rilascio di Irina un separatista ha chiesto a un reporter occidentale a un posto di blocco: «Sei tu Franchetti?» No, ha risposto stupito. «Bene, perché lui è una spia». Nella sfiducia, paranoia e tendenza a vedere complotti dappertutto, le due parti belligeranti hanno ancora molto in comune.
Mark Franchetti, La Stampa 10/9/2014
*Corrispondente da Mosca per il Sunday Times di Londra Traduzione di Anna Zafesova