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 2014  settembre 10 Mercoledì calendario

JOMMELLI, IL GALANTE COSMOPOLITA


Niccolò Jommelli nacque ad Aversa, grosso centro del contado di Napoli, il 10 settembre del 1714: di famiglia borghese e non povera come la gran parte dei musicisti; si formò nei Conservatorî napoletani ed ebbe, più che l’insegnamento, l’incoraggiamento del sommo Leonardo Leo: il quale fece una profezia, riportata dal suo allievo Piccinni, simillima a quella di Sant’Alberto Magno su San Tommaso d’Aquino: «Non passerà molto e questo giovane sarà lo stupore e l’ammirazione di tutta l’Europa!»; ma la sua formazione contrappuntistica se la fece a Bologna col padre Giovambattista Martini col quale avrebbero studiato, fra i tanti, Johann Christian Bach e Christian Theodor Weinlig che sarebbe stato l’unico insegnante di Composizione di Wagner.
Da Martini, dice il suo biografo napoletano Saverio Mattei, apprese «l’arte di uscire da qualunque angustia, o aridità, in cui si fosse ridotto un maestro, e di trovarsi in un nuovo campo spazioso a ripigliare il cammino, quando si credea, che non vi fosse più ove andare». Parole che assomigliano molto a quelle adoperate da Verdi a proposito del suo discepolato col «fortissimo contrappuntista» Vincenzo Lavigna, un pugliese di scuola napoletana: il duro tirocinio servì a fargli portare «la nota dove voleva lui e non dove voleva essa stessa».
Il più celebre compositore dell’Opera napoletana e metastasiana, Johann Adolf Hasse, a Jommelli, sia detto per inciso, assai inferiore, lo raccomandò a Venezia, ove nel 1745, dopo aver debuttato a Napoli, divenne maestro agli Incurabili; e già nel 1743 egli aveva composto l’Oratorio Betulia liberata bello quanto quello di Mozart. Nel 1747 a Roma il Cigno di Aversa rappresentò la sua prima Didone abbandonata , appunto di Metastasio. Egli non è un rivoluzionario né un riformatore; ama assai tuttavia la congruenza drammatica e l’espressione e rappresentazione degli affetti: onde predilige più che non facciano i contemporanei il Recitativo accompagnato. Il presidente de Brosses, l’autore delle Lettres familières , dice appunto dei suoi Recitativi che «per la forza della declamazione e la varietà armonica e sublime dell’accompagnamento, sono di una drammaticità estrema, ineguagliabile, molto superiore al miglior recitativo francese e alle più belle arie italiane».
Nel 1749 l’Aversano era a Vienna ove compose la sua drammaticissima Passione di Metastasio (le più belle sono quella di Caldara, la prima di tutte in ordine di tempo, quella di Jommelli, quella di Paisiello e quella di Salieri); della Didone Metastasio (il quale non comprese, di tutti i musicisti, solo la sublime espressione di Caldara) dice esser «ornata d’una musica, che giustamente ha sorpresa, ed incantata la Corte. È piena di grazia, di fondo, di novità, di armonia, e sopra tutto di espressione. Tutto parla, sino a’ violini, e a’ contrabassi. Io non ho finora in questo genere inteso cosa, che m’abbia più persuaso».
Nel 1750 il cardinale Alessandro Albani lo fece nominare di fatto maestro di cappella in San Pietro e in questa veste egli compose musica sacra di uno «stile galante» ma non privo di forza e un Miserere corale modellato su quello di Leo toccante e quasi altrettanto bello del sublime esempio; l’ultima sua opera sarà un altro Miserere in Sol minore, in uno stile che assai deve al teatro e allo Stabat Mater di Pergolesi, però in italiano nella traduzione dei Salmi fatta appunto dal Mattei. Nel 1753 Jommelli entrò in Arcadia come Anfione Eteoclide. Egli, come tutti i compositori della Scuola Napoletana, era colto e sapeva di lettere antiche; oggi conosciamo quanto artista fosse nella rielaborazione dei libretti, compresi quelli di Metastasio.
Ma dall’anno dopo passò al servizio dei duchi del Württemberg, prima a Stoccarda, poi a Ludwigsburg. Nel corso del ventennale soggiorno (oltre a musica sacra della quale fanno parte il Requiem in Mi bemolle maggiore e i meravigliosi Veni creator Spiritus e Veni Sponsa Christi , questi due incisi da Antonio Florio, il quale ha inciso anche la splendida Ciaccona per orchestra) scrisse le sue Opere più importanti (in tutto, di Serie ne ha composte circa sessanta), sovente su libretto di Mattia Verazi. Esse corrispondono a uno spiccato gusto drammatico ch’era del duca Carlo Eugenio e mostrano una commistione della maniera italiana con quella francese la quale comporta spazio riserbato ai cori e ai balli.
Quando lasciò quella Corte, Jommelli lavorò ancora per Napoli e Lisbona; per il San Carlo scrisse nel 1770 quello che a me pare il suo capolavoro assoluto teatrale, l’Armida abbandonata . Morì il 25 agosto del 1774. Era stato uomo piacevole e affabile e generoso nel giudizio artistico.
Jommelli è, con Traetta, il quale di lui è più lirico ed elegiaco ma dotato di minor potenza drammatica e invenzione sinfonica e tuttavia elegantissimo e ricco anche di talento comico, come testimonia il goldoniano Buovo D’Antona, un gigante della musica; oltre la Didone abbandonata (che esiste in una infame registrazione diretta da un Frieder Bernius) il Vologeso , per il quale egli aveva una giusta predilezione e che antepone al Fetonte come l’anteponiamo noi: si tratta di Opera di valore superiore allo stesso Demofoonte (1766); il Fetonte (1768: aduggiato da un eccesso di coloratura, ha premonizioni mozartiane: l’Aria di Teti «Tacito e lento il foco» è già di Astrifiammante), il Demofoonte (1743-1770: bellissimo: ma quello di Leo lo fa quasi impallidire) sono capolavori. L’ultima Didone abbandonata si chiude con il rogo della regina e l’irromper delle acque che lo spengono e poi si placano: è uno dei primi Poemi sinfonici della storia ed è singolare anticipazione del finale sinfonico del Mosè di Rossini.
Ma l’Armida abbandonata è una delle più belle opere del Settecento e vorrei dire dell’intero teatro musicale. È, col Vologeso , il massimo che può fare l’Opera seria accogliendo in parte l’esperienza di Gluck (è infatti una grande partitura sinfonica ricca di effetti di pittura sonora da Poema sinfonico) ma non essendo un’Opera, a dir così, «riformatrice». Gli strumenti drammaturgici sono tutti all’interno delle convenzioni dell’Opera seria; non di quella metastasiana, però; portati al massimo delle possibilità; solo l’Idomeneo di Mozart si spinge oltre. Le Arie sono lunghe, minuziose, rifinite; non tripartite ma pentapartite; per comprenderci con un esempio più celebre, assomigliano formalmente a «Vieni ove amor t’invita» del I atto del Lucio Silla di Mozart. I Recitativi secchi sono di alta qualità; quelli accompagnati sono un vertice di drammaturgia e d’inventiva e l’armonia è icastica insieme e ricca. Non un gesto rettorico è tralasciato.
Le Arie posseggono finezze psicologiche straordinarie: citerò solo quella di Armida «Ah, ti sento, mio povero core», ove Jommelli inventa una vocalità sillabica e pausata e una forma apparentemente priva di forma per descrivere lo stato d’incertezza e disperazione della maga; altre Arie simulano d’esser Recitativi accompagnati. Si comprende l’influenza di quest’Opera sull’Armida di Haydn, altro capolavoro; e occorre osservare che il soggetto è tra quelli che in musica più sono stati fecondi di grandezza: da Lully a Jommelli a Traetta (1761-1767) a Gluck, del quale secondo me è l’Opera più bella, a Dvorak. In fondo anche l’Alcina di Händel è la stessa vicenda. In tutte queste Opere la pietà del compositore per la maga infernale ma donna rifulge pateticamente.
Mozart a Napoli ascoltò l’Armida ; egli non aveva simpatia per Jommelli e lascia il giudizio di Opera dotta ma inadatta al teatro. Però l’«Aria di furore» D’Oreste, d’Ajace dell’Idomeneo è ricalcata puntualmente sull’«Aria di furore» di Armida «Odio, furor, dispetto».
Al festival della Valle d’Itria a Martina Franca è stata eseguita quest’anno l’Armida non di Jommelli ma di Traetta: nella convinzione che questa sarebbe ovviamente stata allestita dal San Carlo di Napoli: ma chi questo teatro gestisce di Jommelli se ne impipa.
Lo stesso che dell’Armida può esser detto della Passione : con in più l’osservazione che Jommelli sembra adattare il ductus con grandissima delicatezza a quello della poesia. L’Armida è sul bel libretto di Francesco Saverio De Rogati, allievo di Saverio Mattei; la poesia di Metastasio, epoca differente a parte, evoca nel Cigno di Aversa uno stile leggermente diverso.
La produzione comica e di mezzo carattere di Jommelli è relativamente scarsa rispetto a quella seria; e tuttavia la conoscenza che ho di due Intermezzi, Don Trastullo e L’uccellatrice (questo si apre con un’Aria il tema della quale è affine a quello del Minuetto del Primo Concerto Brandemburghese di Bach) mi induce a desiderar ascoltare il resto, in particolare La critica ; il talento comico dell’autore è sapido.
Ho detto che la musica sacra è in parte in uno stile galante non del tutto figuralista; anche di questa occorrerebbe una più ampia conoscenza. Per esempio il Requiem per Stoccarda in Mi bemolle maggiore per i funerali della duchessa madre, nel suo esser distante dal Figuralismo, non è oziosamente galante ma classico e grandioso. L’autore sinfonico è, come abbiam visto parlando delle Opere serie, di altissima qualità: per esempio la Sinfonia dell’Armida , se si omette di considerare il secondo movimento ch’è in un malinconico minore tutto napoletano, potrebb’esser presa alla lettera per Haydn.
La generazione precedente a quella del Cigno di Aversa culmina in Leonardo Leo che inventa, dopo Alessandro Scarlatti, lo Stile Classico; Jommelli lo assevera. Notevole che uno dei primi Romantici, Christian Friedrich Daniel Schubart, autore delle Ideen zu einer Ästhetik der Tonkunst , 1784 ma pubblicate postume nel 1806 (Idee per un’Estetica della Musica ), ne faccia uno straordinario elogio («uno dei sommi genî musicali mai vissuti») e gli dia l’appellativo di nuovo Orfeo. Luogo comune è, per la sua ricerca espressiva, che scrivesse musica filosofica. Venne poi dimenticato; il grande libro di Hermann Abert dell’inizio del Novecento riaccese l’interesse per lui che dovrà portarsi al vivo mondo del repertorio.