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 2014  settembre 09 Martedì calendario

ENTRO DUE ANNI LA SCELTA DEL SITO PER INTERRARE 90 MILA METRI CUBI

L’Italia ha abbandonato il nucleare, ma contando i residui delle vecchie centrali atomiche in corso di decommissioning e tutto il materiale radioattivo prodotto dalla normale attività industriale, di ricerca e ospedaliera a tutt’oggi ci sono 27.000 metri cubi di rifiuti radioattivi sparsi per il territorio del Belpaese. Oltre 25mila sono rifiuti a bassa e media radioattività, ma ce ne sono quasi 2mila ad alta radioattività. Oggi sono conservati in sicurezza, ma certamente in modo provvisorio e disorganico, in una ventina di siti. Una situazione che ci è vietata ormai da una direttiva europea del 2011, che obbliga gli Stati a predisporre una soluzione definitiva e assolutamente sicura. Costruendo un «Deposito nucleare nazionale» che funzionerà per almeno quarant’anni. Qui finirà l’«immondizia atomica» già presente in Italia. Successivamente, vi sarà immessa la produzione «normale» di materiale radioattivo di fabbriche, laboratori e ospedali (500 metri cubi l’anno, dai caricatori delle macchine a raggi X alle tute usate dal personale). Infine, potrebbe finirci dentro (ma non è certo) il combustibile nucleare «riprocessato» in Francia e in Gran Bretagna proveniente dalle centrali italiane attive in passato. Se non saranno trovate altre soluzioni, dopo il 2025 ci dovremo infatti riprendere indietro circa 800 metri cubi di materiale, contenuto all’interno di 24 grossi contenitori in lega di ghisa speciale, pesanti decine di tonnellate ciascuno. Va da sé che per questo materiale ad altissima e soprattutto molto persistente radioattività (migliaia di anni...) poi si dovrà trovare un’altra soluzione.
Tutto chiaro, sulla carta. Il problema - la cui delicatezza non sfugge - è dove verrà costruito questo benedetto deposito. Che dovrebbe accogliere fino a 90mila metri cubi di materiale radioattivo, e che sarà grande come un campo da calcio e alto quanto un palazzo di cinque piani. Lo scorso 4 giugno l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ha ufficializzato i criteri per la localizzazione dell’impianto, che successivamente sarà realizzato dalla società pubblica Sogin, azienda che gestisce lo smantellamento delle vecchie centrali, appena uscita da un cupo periodo di sprechi, scandali e indagini. Entro il gennaio del 2015 bisognerà così definire una mappa delle aree «potenzialmente idonee» per il deposito, che sarà di superficie (e dunque non sotterraneo come quello a suo tempo ipotizzato a Scanzano Jonico).
Non sono «idonee» le aree vulcaniche, quelle sismiche, quelle soggette a frane e inondazioni, quelle in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici. Niente nemmeno per i siti con altitudine superiore ai 700 metri, quelli a meno di 5 chilometri dalla costa, quelli in zone carsiche o di sorgenti, i Parchi nazionali. Niente da fare nemmeno per le aree vicino a centri abitati, strade e ferrovie, attività industriali, aeroporti, poligoni militari, miniere. Non c’è nulla di ufficiale, ma alla fine secondo «chi sa» si finirà in una di queste quattro Regioni: Puglia, Lazio, Toscana, Basilicata. L’impianto dovrebbe essere molto sicuro, e ci saranno incentivi economici per la localizzazione. Ma c’è da giurare che non sarà facile conquistare il consenso delle popolazioni dell’area prescelta.
I tempi: secondo le previsioni, il sito si sceglierà entro la primavera del 2016; la costruzione si farà entro il 2022, e prevederà anche la creazione nell’area del Deposito di un «Parco Tecnologico», dedicato alla ricerca e alla formazione su decommissioning, gestione dei rifiuti e radioprotezione. Il costo complessivo, dicono alla Sogin, sarà di 1,5 miliardi di euro, che saremo noi italiani a pagare attraverso un (ennesimo) contributo sulla bolletta dell’elettricità. Altri osservatori però stimano la spesa finale in una somma più vicina ai 2,5 miliardi. Sempre che non ci siano ritardi, sovraccosti e pasticci all’italiana.
Roberto Giovannini, La Stampa 9/9/2014