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 2014  settembre 09 Martedì calendario

POLI RAGAZZO INFERNALE

[Intervista a Paolo Poli] –

«Prima c’era più tempo per leggere. Comunque io a luglio e agosto dico a tutti che vado in Scandinavia e invece mi metto a letto con Dante Alighieri, con l’Ariosto e con il Tasso. E in questa compagnia bella sto proprio bene».
«Dante Alighieri, che non è solo di Benigni, ma di tutti, fa una gran compagnia».
«Come Dante Alighieri mi è sempre piaciuto essere un isolato. Essere degli isolati è faticoso, lo è stato anche nei tempi passati. Per fortuna Dante sapeva scrivere e leggere bene, grazie a questo se l’è cavata».
Fantasmagorico e insolente, poliedrico e grazioso, porcellanato, malizioso, spumeggiante, intrepidamente fuori moda (e per questo eterno). Basterebbero le tre affermazioni iniziali per capire il motivo della performance dantesca di Paolo Poli (fiorentino puro sangue, classe 1929) dopodomani sera a Ravenna, a pochi metri dalla tomba del Poeta e nell’ambito del Festival “Dante tra Amore, Ragione e Poesia”. La manifestazione, giunta alla sua quarta edizione, è organizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio della città e si avvale della direzione scientifica dell’Accademia della Crusca. Prelude alle grandi celebrazioni del 2021 per il settimo centenario della morte del padre della lingua italiana.
Quella con e per Dante Alighieri è più familiarità o ammirazione?
«Familiarità, che diamine. Noi da bambini, a Firenze, si faceva il pasto quotidiano con Dante e Pinocchio».
Per questo conosce chilometri dell’Alighieri a memoria?
«Bisogna che racconti qualcosa. Io ho imparato molto presto a leggere e scrivere. L’ho fatto da me, in casa, sfogliando il libro di ricette dell’Artusi - adoravo le frittelle dolci! - e comparando questo e quello, le lettere, le corrispondenze tra parola e illustrazione. Mia madre, in ogni caso, era maestra. Andai a scuola alla terza elementare e fui subito identificato come il bambino bellino bellino che diceva bene le poesie. Nelle poesie ero bravo davvero. Ne sapevo tante. A memoria, naturalmente..., inclusi i versi di Dante».
Come li metteva a frutto?
«C’era il regime fascista, ovviamente. Ci venivano a visitare, alla scuola, monarchici e fascisti. A seconda dell’ospite e della sua importanza, ero chiamato a recitargli in faccia un Canto dell’Alighieri. Per gli esponenti monarchici - anche Maria José, la principessa di Piemonte, che andava a visitare le scuole - era pronto il trentatreesimo del Paradiso, Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio..., eccetera. Quando invece arrivava il segretario del fascio, era pronto Ugolino, il trentatreesimo dell’Inferno, La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto. Alle maestre sembrava più in clima».
Per il Dante Festival lei ha scelto Ugolino...
«L’è quello che mi ricordo tutto’ntero a memoria, anche se l’è una digressione abbastanza lunga. Non mi va d’inforcare gli occhiali per leggere. E di notte, si sa, le luci son sempre orrende».
La sua Firenze continua ad avere un rapporto speciale con Dante?
«Da noi anche il popolo, quando era necessario, citava l’Alighieri. Lo faceva anche solo per scherzo, per gioco, per bellezza. Tutto l’Ottocento di citazioni dantesche è vissuto. Quando andavo in giro con gli amici - il conte Guicciardini, il marchesino Antinori che, povero, si buttò poi dalla finestra, e altri - a prendere un panino con la trippa, Dante, prima o dopo, lo si tirava in ballo, così, tra ragazzi. E più tardi, all’Università, dove sono stato dieci anni perché mi ci trovai benissimo, professori e allievi sapevamo a memoria almeno tutto l’Inferno. A Firenze le lecturae Dantis erano pane quotidiano, d’inverno e d’estate, nei palazzi... Se sentivi per la strada non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, c’era chi replicava: Inferno, trentadue».
Dante, dati i tempi, è una consolazione?
«Se vogliamo dire così, diciamolo. Fino a pochi anni fa in teatro si riusciva a fare uno spettacolo dopo l’altro. Adesso niente, ti senti ripetere i soldi, i soldi, i soldi... Non so come definire il tempo che stiamo vivendo. Anzi, non definirei nulla, lavorerei e basta. Dovrei andare a ruba, visto che riesco a dare scandalo alla mia età e certi preti sconsigliano ancora ai parrocchiani di non andare a vedere i miei spettacoli. Invece tutti mi fanno discorsi di soldi, non ci sono i soldi. E si sta fermi».
In una intervista ha raccontato che anni fa un ragazzo del Sud le disse: «Non sei giovane, non sei bella, non sei donna. Eppure hai la malizia». Conferma?
«Confermo. Ho portato il “peccato” in luoghi ancora naif. Ma riesco anche a dire che in Italia gli ideali di Mazzini, Dio, patria e famiglia, sono andati a farsi benedire, e tutto è cambiato».
A proposito di peccati...
«Il peccato più grave è la noia, ha detto con ragione Oscar Wilde. Io cerco di non annoiare e di non annoiarmi. In teatro e nella vita».
Non teme di affrontare Ugolino in un nomento storico così carico di violenze e di vendette?
«Gira tra i miei aforismi: “Senza tragedie, senza cattivi, non c’è Storia».
Lei è sempre stato bello. Ha aggiunto alla bellezza una grande eleganza. Incarna, come un altro illustre fiorentino, Giorgio Albertazzi, l’eterna giovinezza wildiana del “Ritratto di Dorian Gray”. Le secca che il tempo passi?
«Sono contento di essere vecchio e vorrei essere creduto. Troppe volte ho sentito cantare giovinezza primavera di bellezza. La forma fisica? Ci vuol davvero niente: basta mangiar poco».