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 2014  agosto 31 Domenica calendario

JACK FRUSCIANTE NON È PIÙ TORNATO NEL GRUPPO


Errori, rifiuti e la stagione straordinaria degli Under 25 Così nacque il mio romanzo. Ecco che cosa rimane Sono trascorsi vent’anni esatti dal giorno in cui Massimo Canalini, editor di Transeuropa, mi convocò ad Ancona per assistere a un piccolo miracolo: presso una tipografia nella zona industriale del capoluogo dorico, stava finalmente andando in stampa la prima edizione del mio romanzo d’esordio, Jack Frusciante è uscito dal gruppo .
Esaltato dalla prospettiva di poterne vedere e toccare le prime copie, dalla natìa Bologna mi precipitai nelle Marche — per quanto la modesta velocità di un treno interregionale consentisse di precipitarsi — e insieme al buon Max raggiunsi il luogo del prodigio: ciò che vidi mi lasciò senza fiato.
All’interno della tipografia, nel cui cortile scorrazzavano due minacciosi rottweiler, il titolare, un uomo coriaceo soprannominato «Bracio de fero», era impegnato a stivare le duecento copie del volume dentro una decina di scatole in cartone. «Lui è l’autore del romanzo» mi presentò Max allo stampatore e aggiunse, con un tono a metà fra l’orgoglioso e il preoccupato: «È un fìolo de diciannove anni». «Bracio de fero» mi squadrò, indicò una scatola ancora vuota per metà e, con aria sacrale, concesse: «Pijane una copia in te le mani».
«Grazie» replicai, la voce sottile per effetto dell’apnea, e mi impadronii del libro ancora caldo di stampa che sormontava la pila: c’era poco da dire, il cognome in copertina era il mio, e anche il titolo era quello giusto. Non resistetti alla tentazione di sfogliarlo, e provai un brivido nel riconoscere un passo del mio testo, e poi un altro e un altro ancora, riprodotti in Simoncini Garamond sul fondo bianco-avorio della pagina.
Dunque era tutto vero! L’attesa, che si protraeva da una intera stagione, era finita: la mia storia era diventata un volume come quelli che si trovavano in libreria, rilegato e profumato di inchiostro.
«Allora?» mi pungolò Max aggiustandosi gli occhiali sul naso. Per qualche motivo, sembrava commosso anche lui. «Cosa te ne pare?».
«Bellissimo» balbettai. «Non ci speravo più, dopo tutti questi mesi».
«Eppure te l’avevo detto, di fidarti di me» disse con un sorriso, immensamente consapevole nei suoi trentasette anni. Poi guardò «Bracio de fero» che arrivava carico di nuove copie, e la sua espressione soddisfatta lasciò spazio a un sospiro. «Adesso tocca venderle tutte» fece il punto, e aggiunse, ubriaco di ragion pratica: «Speriamo che i giornali ci aiutino con qualche recensione».
Lo speravo anch’io, ma il primissimo obiettivo era più modesto: per il momento, mi sarei accontentato di impadronirmi della ventina di copie che mi spettavano per contratto, evitare di innervosire i rottweiler all’uscita della tipografia e riguadagnare sano e salvo la stazione ferroviaria. Solo se fossi riuscito a portare quel po’ di volumi in terra d’Emilia, infatti, i più increduli fra gli amici si sarebbero dovuti convincere del fatto che quelle del sottoscritto non erano semplici vanterie da pub: avevo davvero scritto un libro.
La passione per la scrittura, che nei primi anni Novanta io stesso trovavo ossessiva e fuori moda come il vizio di fumare la pipa, aveva preso a manifestarsi intorno ai sedici anni. Insieme all’amico Andrea Prodi, di un anno più anziano, mi ero ostinato a dare vita a un giornalino scolastico non autorizzato, che aveva nome «Perle ai porci» e, a mo’ di sottotitolo, «fanzine di misantropia».
Il suo obiettivo dichiarato era quello di sottrarre consensi al foglio ufficiale del liceo, stampato con i fondi a disposizione delle attività studentesche e decisamente troppo in linea, per i nostri gusti di allora, con i desiderata degli insegnanti.
Ci eravamo buttati nell’impresa sfidando le ire del preside e conquistammo in breve uno zoccolo duro di lettori che si esaltava per i nostri editoriali sfacciati, per le recensioni di libri e dischi proibiti, e per le bertoldesche prese in giro ai danni dei rappresentanti d’istituto, delle reginette di bellezza e degli aspiranti ras di terza liceo. Sull’onda dell’approvazione di tanti, una malriposta sensazione di invulnerabilità ci accompagnava, un numero dopo l’altro, nel deridere il conformismo del quale era imbevuta la vita scolastica — dico malriposta perché, se dalle ramanzine in sala-professori si usciva incolumi, in un paio di situazioni rischiammo il martirio sotto i portici del liceo per mano di bande di coetanei poco rispettosi della libertà d’espressione, convenuti per vendicare manu militari le vittime dei nostri corsivi.
In qualche modo, ne eravamo usciti sempre in piedi, e la redazione di «Perle ai porci» si era ampliata fino a comprendere una decina di ragazzi, arcilieti di mettere insieme l’ennesimo numero del «giornale» rubando tempo alle versioni di Senofonte, alle terzine del Purgatorio e allo studio delle ossidoriduzioni.
A fare di noi una squadra, oltre ai pomeriggi trascorsi insieme a disegnare menabò e abbozzare nuovi articoli al Bar degli Etruschi, c’era la passione per il rock, la narrativa non inclusa nei libri di letteratura per la scuola secondaria, i fumetti e il cinema.
E proprio in un cinema d’essai, il Lumière di via Pietralata, mi era capitato di trovare ispirazione per il mio primo racconto lungo. Il film galeotto era Blade Runner di Ridley Scott, uscito nelle sale una decina d’anni prima e riproposto nell’ambito di una rassegna dedicata alla fantascienza: le avventure di Harrison Ford nei panni del cacciatore d’androidi Rick Deckard mi avevano folgorato, così come l’ambientazione della pellicola in una cupa Los Angeles del futuro e, una volta a casa, mi ero messo a scrivere. La storia che avevo concepito era quella di un giovane cacciatore di taglie che insegue androidi in una tetra metropoli del XXI secolo… Più che ispirarmi, insomma, avevo copiato di peso l’ambientazione, lo spirito e il plot di una delle opere cinematografiche più celebri del decennio precedente.
Agli amici che non avevano assistito alla proiezione di Blade Runner , in ogni caso, il testo era piaciuto moltissimo; mi avevano letteralmente ubriacato di lodi per la vicenda visionaria e la trama avvincente, al punto che io stesso mi ero convinto a inviare il testo in lettura a diversi editori. Speravo di farmi bello con le piume del pavone. Gli editori, però, non erano dei sempliciotti come speravo, e nessuno di loro era caduto nella trappola.
Sei mesi erano trascorsi senza ricevere alcuna risposta quando, nel febbraio del 1992, aveva telefonato a casa dei miei genitori Massimo Canalini: era a Bologna e voleva incontrarmi, così andai al rendez-vous con timida speranza che, almeno lui, ci fosse cascato e fosse deciso a pubblicare la mia storia fantascientifica. Ci ero rimasto di sasso quando, esaurito il breve rituale delle presentazioni, mi era quasi scoppiato a ridere in faccia e aveva domandato: «Con tutte le storie che ci sono da raccontare, come ti è venuto in mente di riscrivere Blade runner ?»
Ormai scoperto, ero pronto a fuggire con la mia vergogna, ma lui mi aveva fatto cenno di restare. E, con la pazienza tipica dei talent scout e dei domatori di selvatici, mi aveva spiegato che la mia non era ancora una causa persa, a patto che cambiassi approccio.
Io non potevo capire, e domandai cosa intendesse. Per tutta risposta, estrasse da una tasca interna dell’impermeabile un foglio gualcito: era una fotocopia dell’appello di Pier Vittorio Tondelli ai giovani narratori interessati a partecipare al progetto «Under 25». Chi fosse Tondelli lo sapevo perché, tre mesi prima, la stampa aveva dato grande risalto alla sua prematura scomparsa, ma leggere quelle righe mi lasciò di sasso, ché sembravano dirette alla mia persona: non bisognava copiare le storie del cinema o quelle di altri libri, spiegava l’autore di Altri libertini e Camere separate . Molto meglio raccontare vicende prese dalla vita vera, amori, amicizie e sorprese delle quali nessuno meglio di noi poteva conoscere il lessico, le dinamiche e le temperature. «Ma la mia vita è noiosa» mi schermii. «Vado a scuola come tutti, ho degli amici con i quali suono il basso, davvero molto male, e faccio un giornalino. Tutto qui». «E poi?», m’invitò a proseguire Canalini.
«Poi sogno di partire in interrail, ma non so se i miei mi daranno i soldi per farlo. E mi piace una ragazza che non si decide a fidanzarsi con me, perché a giugno andrà in America, e ci resterà un anno intero».
«Ottimo!» si rallegrò. «È questa la storia che devi scrivere. Dimentica i mutanti e cacciatori di mutanti, d’accordo?».
Ero incredulo come un uomo del XVI secolo che avesse assistito in anteprima alla dimostrazione delle teorie copernicane: cinque minuti prima, Max mi stava praticamente dando del somaro, e adesso era tutto contento.
«Però devi leggere buoni libri» si era raccomandato. «E quando li hai letti, li devi studiare. Se vuoi, ti passo qualche titolo».
Certo che volevo.
«Tu li studi per bene, e inizi a scrivere la tua storia. Poi fra qualche tempo ci rivediamo, e facciamo il punto della situazione».
Era cominciata così, la mia avventura nel mondo di quella che, con un eufemismo capace di nasconderne il valore pionieristico, allora chiamavamo «piccola editoria».
Da quel giorno mi ero messo d’impegno per scoprire come facevano Tondelli e De Carlo, Cacucci e Del Giudice, Claudio Piersanti, Lorenzo Marzaduri e Silvia Ballestra a scrivere pagine su pagine di narrativa avvincente ambientata nell’Italia che anch’io conoscevo. Cercavo di nutrirmi della consapevolezza che faceva di loro degli autori, e intanto andavo buttando giù la prima versione della mia storia.
Ardevo d’amore per Adelaide, e mi turbava l’approccio nichilista degli amici capaci di bruciare alla luce delle proprie certezze, così non potevo avere dubbi su chi dovessero essere i miei personaggi, e quali rapporti dovessero intercorrere fra loro. Per scrivere in pace, puntavo la sveglia alle sei e mi ritagliavo un’ora prima di fare colazione e andare a scuola. Un’altra riuscivo a ricavarla la sera e, a quel ritmo, non era difficile mettere insieme quattro o cinque pagine nuove ogni giorno.
Poi erano venuti gli appuntamenti del sabato pomeriggio a Bologna e, in estate, le «tre giorni» anconetane in redazione, gomito a gomito con altri ragazzi che sognavano di completare il proprio romanzo d’esordio. Si curava la prosa come fosse una religione, e leggevamo a turno i capitoli delle nostre opere prime in un’atmosfera tollerante e ricca di stimoli. Eravamo giovanissimi e felici di stare al mondo, scambiarci consigli, andare a cena insieme e riprendere i lavori fino a notte fonda.
Per non lasciare nulla di intentato, il nostro mentore ci incoraggiava a prender parte a tutti i concorsi letterari dei quali ci giungesse notizia. Subito dopo l’esame di maturità avevo partecipato a quello indetto dal mensile «King» della Nuova Eri, le edizioni della Rai, e Max era stato il primo a congratularsi quando aveva imparato che il mio racconto dal bizzarro titolo Freaky stiley era stato selezionato per la pubblicazione in volume. Insieme a quell’inatteso premio, era arrivata la proposta di collaborare alla rivista e, per la prima volta, avevo visto il mio nome pubblicato sulla carta stampata.
A quel punto, il mio romanzo era ormai pronto.
Era servito pazientare ancora qualche mese, trascorso fra le lezioni di Umberto Eco e la bohème tipica delle matricole universitarie, fino a che non era arrivata la convocazione per raggiungere la tipografia di «Bracio de fero».
Né Max né il sottoscritto, mentre caricavamo gli scatoloni nel bagagliaio della sua utilitaria sotto lo sguardo dei rottweiler, potevamo immaginare che a quella prima tiratura di duecento copie ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, né osavamo sperare in esiti ulteriori. Per il momento, ci bastava non innervosire i cagnacci, montare in auto e andare a fare un brindisi in città.
A chi oggi mi domanda cosa rimane, dopo vent’anni, di quello spirito e quella stagione, rispondo che, a mio modo di vedere, sopravvive l’essenziale: l’urgenza di scrivere, in primo luogo. E poi il desiderio di confrontarsi senza sosta con i propri modelli, l’aspirazione a guadagnare con le proprie storie il diritto all’attenzione altrui e, infine, la certezza che nessuno vive un’esistenza così banale da rendere inutile il tentativo di raccontarla.