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 2014  settembre 02 Martedì calendario

CARRÈRE: «RACCONTO I VANGELI MA NELLA MIA VITA NON C’È POSTO PER DIO»

Emmanuel Carrére, come si passa da un diavolo ultracontemporaneo, come il dissidente russo Eduard Limonov, eroe del suo ultimo romanzo, a personaggi come San Paolo e San Luca?
«In realtà ho cominciato questo libro più di vent’anni fa, quando ho attraversato uno strano periodo di devozione religiosa. Avevo sempre conservato, vagamente, l’idea di utilizzare gli appunti che avevo preso allora. È curioso disporre di archivi così circostanziati su se stessi, su un momento della vita da cui ci si sente così lontani. Ma era una cosa che mi metteva a disagio. Mi sono messo a scrivere questo libro nel 2007, dopo aver pubblicato La vita come un romanzo russo. Questo significa che la sua stesura ha inglobato quella dei miei ultimi libri, Vite che non sono la mia e Limonov. Ho incontrato delle difficoltà, dei dubbi, ma è stato incredibilmente piacevole da scrivere! È come un piatto di lasagne, con più strati alternati».
Il suo interesse iniziale per i primi cristiani è stato come sceneggiatore…
«Per un certo periodo ho avuto il progetto di realizzare una serie televisiva su San Paolo. Mi ero detto: “Ma guarda questa piccola setta di Corinto intorno al 50 dopo Cristo, sarebbe un buon soggetto”. E così ho cominciato a redigere un documento sui personaggi e il contesto. Poi, prendendo appunti sulle lettere di Paolo e gli atti degli apostoli, ho ben presto abbandonato l’idea della sceneggiatura».
Lei ha detto che trova «molto meno impudico» fare «confidenze sessuali» e parlare di pornografia che affrontare «le cose dell’anima, quelle che hanno a che fare con Dio». Eppure qui lo fa, e per di più di 600 pagine…
«La parte più delicata è stata quella più autobiografica, dove cerco di raccontare quel periodo in cui andavo a messa tutti i giorni. Mi sembra strano e non particolarmente glorioso. Non che ci sia qualcosa di cui vergognarsi, non ho commesso cattive azioni, ma quel Carrère giovane non offre un’immagine particolarmente lusinghiera del cristianesimo. Si può pensare che ogni fede faccia leva su un meccanismo di compensazione, un’illusione consolatrice. Nel mio caso, mi sembra assolutamente vero. Ho l’impressione di aver avuto un rapporto totalmente nevrotico con la fede».
Lei quindi è lontano dal considerare la religione come «l’oppio dei popoli».
«Se non sei credente, la posizione più coerente è quella di trovare nel cristianesimo un interesse puramente culturale e storico. Si può ritenere, come Michel Onfray, che le cantate di Bach e le cattedrali siano cose bellissime, ma che la fede sia fatta di cose false. Non è il mio caso. Io non credo che Gesù sia resuscitato né che sia figlio di una vergine, ma il mio legame con il cristianesimo non è solamente sentimentale o culturale. Per me è qualcosa che informa e irriga il nostro spirito, i nostri comportamenti. Mi sembra addirittura qualcosa di abbastanza auspicabile. Se non credi, è abbastanza complicato da sostenere intellettualmente. Ma voglio spezzare una lancia a favore di una certa incoerenza, del fatto di non essere del tutto logico».
Alla fin fine, ritiene possibile fare a meno di Dio?
«Ah, ma io riesco benissimo a farne a meno… L’idea di Dio non ha nessun posto nella mia vita. Non ho nessun problema con le persone che considerano Dio importante, ma a me non dice niente. E la promessa di un aldilà mi dice poco di più. Invece, l’idea che ci sia una dimensione della vita un po’ più difficile da vedere di quella che salta agli occhi, quella che Gesù chiama “il Regno”, questo sì, mi appare desiderabile e ha un senso per me».
E se bisognasse definirlo, questo Regno?
«La formula centrale per me è “I primi saranno gli ultimi”. E viceversa. È l’inversione, il “chi perde, vince”. Penso che sia il mantra fondamentale del cristianesimo. Continua a essere qualcosa di estremamente stravagante e rivoluzionario».
Ma come è stato recepito questo messaggio? Lei dimostra che il cristianesimo sarebbe potuto diventare qualcosa di diversissimo, per esempio se avesse preferito la Chiesa di Giacomo alla setta di Paolo.
«Innanzitutto perché quel messaggio è stato completamente tradito. Probabilmente è il messaggio più rivoluzionario mai pronunciato sulla terra, ma il cristianesimo è diventato ben presto un’istituzione. E un’istituzione è il contrario di una rivoluzione. La Chiesa ha i suoi pregi, non lo nego. È una miscela di grandezza storica, errori terribili, crimini, cose magnifiche… Come molte costruzioni umane. Il cristianesimo si fondava sul miglior romanzo possibile! Un romanzo grandioso, che era diventato un bestseller. Uno dei miei desideri era proprio cercare di capire uno dei quattro tizi che lo avevano scritto. Luca è più romanziere degli altri, è una delle ragioni dell’affinità personale che sentivo con lui: sufficiente per farne, se non il protagonista, almeno il filo conduttore del mio libro».
Ve ne appropriate con grande disinvoltura. Non ha la sensazione di essere un iconoclasta?
«È facile appropriarsi di Luca, perché sappiamo pochissime cose su di lui. Immaginare che sia stato il ghostwriter delle lettere attribuite a Giacomo è una provocazione, ma è una provocazione rivolta a una popolazione molto limitata, quella degli esperti delle lettere di Giacomo o del Nuovo Testamento. Detto questo, penso che tanti diranno: “Tu guarda, forse non è una stupidaggine”».
Lei presenta i primi cristiani come dei mutanti, quasi come degli zombie…
«Come dei mutanti, non come degli zombie. In quanto appassionato di letteratura fantastica, ci tengo molto a distinguere… Il cristianesimo teorizzato da San Paolo assomiglia molto a una storia del genere “L’invasione dei profanatori di sepolture”. È una specie di sostituzione surrettizia di un’umanità con un’altra. Racconta una mutazione attraverso l’intermediario del Spirito Santo e della comunione».
Sembra molto riuscito, dal punto di vista della tecnica letteraria, il modo in cui lei attualizza quello che racconta attraverso comparazioni anacronistiche di ogni genere, per esempio quella tra gli inizi di San Paolo e gli inizi di Lenin…
«È il lato fumettistico del libro, ma ho tagliato parecchio su queste cose. Finiva per essere un po’ demagogico. Allo stesso tempo, è assolutamente necessario: è un libro abbastanza impegnativo per il lettore, bisogna accompagnarlo, essere un po’ gentili con lui».
Lei scrive che questo libro è il suo «capolavoro»…
«No, non ho scritto proprio questo! Ho detto che era una delle mie fantasticherie durante la stesura dell’opera. Di tanto in tanto, bisogna pensare “Ah, è il mio capolavoro”, oppure “Ah, è un capolavoro che rivoluzionerà la letteratura!”. È una fortuna avere queste ventate di maniacalità quando si scrive, aiuta. D’altra parte, tra i miei libri è quello che ha l’ampiezza maggiore. E se la parola “capolavoro” la intendiamo in senso artigianale, allora la accetto assolutamente. È un libro che spero susciti un interesse reale. Penso che sia piuttosto affidabile. Non è esente da teorie precostituite, ma sono tutte spiegate, nei limiti delle mie possibilità. Il lettore grosso modo sa da dove parla il narratore, anche se parla da posti diversi. Dopo Vite che non sono la mia, dove mi ero lanciato un po’ a casaccio nei problemi che solleva il sovraindebitamento, mi sono accorto che mi piace molto la pedagogia. Non passa per un’ambizione letteraria tra le più nobili, ma a mio parere non è subalterna. Credo che i lettori non perderanno il loro tempo: ne usciranno più istruiti, con le idee un po’ più chiare su domande importanti, che possono farli riflettere. È ambizioso, ma non irragionevole».
©2014 Le Nouvel Observateur.
(Traduzione di Fabio Galimberti)