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 2014  settembre 02 Martedì calendario

“IO SONO ANCORA TERRIFICANTE E MALVAGIO” I MESSAGGI DEL PADRINO CHE SI CREDE ETERNO

[Totò Riina] –
È lui, indiscutibilmente è lui.
Paranoico come sempre e pieno di sé come mai. Però è lui, l’originale, il puro, autentico folle assassino che ha fatto tremare l’Italia. Nel suo delirio se ne compiace: «Fra duemila anni ci sarà sempre Totò Riina». Ogni tanto gli scappa e parla di se stesso in terza persona, si sente immortale e ancora invincibile.
È il Riina più estremo e più vanitoso che si esibisce pubblicamente perché non può più farlo per la platea dell’esclusivo club al quale apparteneva. Dice: «Totò Riina era così, spietato, perché è nato dalle leggi della natura e la natura è la propria identità». Dice: «Io il tempo non lo conosco». Dice ancora: «Io ho iniziato da zero... la mia famiglia diventò una bomba».
È sempre stato così, immancabilmente primo. Non sta mentendo il contadino di Corleone diventato dittatore della Cosa Nostra, non sta mentendo a se stesso e non sta mentendo agli altri in quest’interminabile sproloquio nel camminatoio del carcere di Opera, parole che sembrano gettate al vento da un povero vecchio e che invece nascondono — una per una e una dopo l’altra — il cuore nero di un mafioso sepolto vivo che non si arrende nemmeno davanti all’evidente disfatta. Abbiamo già scritto molte volte che Totò Riina non si sta rivolgendo al popolo mafioso (che non c’è più, scompaginato dalla repressione poliziesca e sostituito da una criminalità più silenziosa e a volte anche legale) ma piuttosto ai complici che l’hanno tenuto in latitanza per quasi un quarto di secolo usandolo per delitti eccellenti e stragi. Abbiamo scritto che questo suo parlare è un dire e un non dire che si trasforma spesso in un minacciare permanente ricordando il passato — Capaci e Falcone, via D’Amelio e Borsellino — o indicando il futuro e i suoi bersagli — prima il pm Di Matteo e poi don Ciotti — , è un dialogare per regolare conti e lanciare messaggi ma la lingua che usa è sempre quella: la sua.
Passa le giornate a vantarsi («Sono diventato un re») proprio come faceva dopo una carneficina nella masseria dei Brusca, a irridere chi l’aveva sottovalutato («Pensavano che ero un analfabeticchio») come per esempio quei rappresentanti dell’aristocrazia mafiosa palermitana che lo consideravano poco più di un caprone, a sottolineare sempre la sua ferocia («Io terrificante... io sono malvagio, uno che macina.. ») per far sapere a tutti che non è cambiato e che, se solo potesse, lui continuerebbe a macellare i suoi simili.
Non c’è niente di inedito in questo Riina carcerato rispetto al Riina che ci avevano raccontato i pentiti che stavano seduti accanto a lui nella Cupola, riparte da dove aveva cominciato: «Sono una roccia di Corleone, super corazzato, sono spavaldone, sono un gran pensante». Una volta, in un’udienza, quando il presidente della corte d’assise gli elencava tutti gli omicidi dei quali era accusato, lui rispondeva: «Io non ho mai fatto tutte queste manachelle». Gli omicidi per lui erano «manachelle», marachelle, monellerie. Oggi si rivolge al suo compagno nell’ora d’aria definendosi così: «Sono un birbante con un carattere di ferro». Totò Riina birbante.
Non c’è un Totò Riina di prima e un Totò Riina di dopo, è lo stesso assassino, lo stesso uomo che conosce solo un mondo: il suo.
Sa sempre quello che dice. E se chiama «re dei carabinieri» il suo vecchio amico Provenzano, lo fa perché vuole ricordare come è stato venduto quando lo presero i reparti speciali la mattina del 15 gennaio del 1993. È un doppio avvertimento. Lui non l’ha mai mandata giù quella storia per come è andata. Chissà, se avrà mai confidato qualcosa d’altro in proposito al suo compare di passeggio Alberto Lorusso.
Anche quando entra nel suo privato, nelle pieghe più intime, Totò Riina non smentisce Totò Riina. Se si lamenta spesso di Silvio Berlusconi e mostra tutta la sua delusione per quell’uomo che «con il 66 per cento doveva mandare alla fucilazione i magistrati », se lo punzecchia ricordando agli ascoltatori italiani delle sue chiacchierate che «in qualche modo mi cercava, si mise a cercarmi», alla fine manifesta tutto il suo disprezzo con un marchio: «È un vigliaccone, cerca mutande dei picciriddi». Dei bambini.
Non cambia mai neanche quando parla di sesso fra adulti. Come gettava discredito su Buscetta ai tempi del maxi processo? Diceva che aveva troppe donne. E trent’anni dopo racconta a Lorusso della baronessa M., «una signora potentosa, femmina molto esperta» che un giorno gli si presentò davanti «quasi nuda ma io feci finta di non capire niente». E le disse: «Io sono un maschio disgraziato, perché mi avete chiamato? ». Quel vecchio detto siciliano — che non c’è bisogno di tradurre — come vedete si adatta bene a uomini come Totò Riina. ‘U cummannari è megghiu ri futtiri.
Attilio Bolzoni, la Repubblica 2/9/2014