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 2014  settembre 02 Martedì calendario

TRA CELLE IN ROVINA E DETENUTI INVECCHIATI A GUANTANAMO TRAMONTA LA PROMESSA DI OBAMA

WASHINGTON
Corrotto dal tempo, dalla politica e dal clima tropicale, tra pavimenti di truciolato che sprofondano nella sabbia e ratti che rosicchiano le pareti, Guantanamo resiste ancora, monumento alle mancate promesse di Barack Obama e al fallimento morale della “Guerra al Terrore” di George W. Bush. Settantaquattro uomini vi restano detenuti, senza futuro, vestiti in quelle tute arancione che oggi sono divenute la bandiera simbolica degli orrori perpetrati dai macellai del Califfato dell’Is. Guantanamo vive e lotta per loro.
Dodici anni di inettitudine e di palleggio di responsabilità burocratiche, hanno lasciato il “Gulag Tropicale”, come fu definito da Amnesty International, in uno stato di decomposizione materiale che rappresenta perfettamente il disastro di una strategia che ha prodotto un nemico ancora più feroce, e molto più organizzato, di Al Qaeda. Gli inviati del New York Times lo hanno visitato e hanno trovato «una colonia penale fatiscente che costa 443 milioni di dollari all’anno ai contribuenti», senza chiusura in vista.
Eppure «chiudere Guantanamo», una sconfitta morale e d’immagine che, insieme con le foto di Abu Grahib, gli interrogatori «avanzati » e la consegna di prigionieri ad altre nazioni per torture segrete, è costata all’America più di una battaglia perduta, era stata una delle promesse fatte da Barack Obama nel 2008. Un impegno preso senza fare i conti con l’oste, in questo caso quel Parlamento americano e quei Governatori degli Stati che respinsero, e ancora respingono, l’idea di accogliere sul territorio degli Stati Uniti e nei penitenziari di massima sicurezza i resti di quei 779 «combattenti nemici» che, dall’apertura nel gennaio del 2002, vi sono passati.
Sei anni dopo quell’impegno, e nell’imminenza del ritiro definitivo anche dall’Afghanistan entro il 2016, la semplice realtà è che nessuno, non la Casa Bianca, non il Pentagono, dal quale dipende la base navale nel territorio cubano, non la Cia, non il Dipartimento di Stato e non il Congresso sanno che fare di “Gitmo”, come divenne conosciuto. Milioni di dollari sono stati rovesciati sui resti del gulag tropicale, come acqua nella sabbia. Il più famigerato dei campi, “Camp X-Ray” è stato chiuso e il Tropico se lo è ripreso, invadendolo di vegetazione, sabbia, iguana e robusti «topi delle banane».
Non c’è un ospedale, un centro medico attrezzato per emergenza né per cure di lungo periodo, perché il Congresso ha bloccato nuovi fondi per Gitmo. Paramedici militari provvedono al nutrimento forzato dei detenuti che periodicamente lanciano scioperi della fame e il Pentagono ha designato un numero di medici generalisti e di specialisti negli Stati Uniti a disposizione 24 ore su 24 per essere trasportati nella base. Un processo che comunque richiederebbe molte ore, probabilmente troppe, in casi di urgenze, progressivamente più probabili in una popolazione carceraria che sta invecchiando: l’età media dei detenuti è ormai oltre i 40 anni, con qualche anziano vicino ai 70.
Il governo tenta di negoziare trasferimenti verso nazioni disposte ad accoglierli promettendo, per quel che valgono queste promesse, di tenerli sotto controllo. Il vice presidente Joe Biden aveva personalmente negoziato con il presidente uruguayano Josè Mujica l’invio di sei prigionieri in agosto e un cargo militare era atterrato per caricarli. Ma all’ultimo momento, Mujica, inquieto per l’effetto della notizia sulla sue possibilità di rielezione, ha rinnegato la promessa. Il C17 della Air Force è ripartito vuoto.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, attraverso il giudice Stephen Breyer, uno degli ultimi magistrati “liberal” nominato da Clinton 20 anni or sono, ha dato segni di inquietudine e di agitazione, per la continua, evidente violazione del principio fondamentale del diritto anglo-americano, lo “Habeas Corpus”, il divieto di detenere segretamente persone senza incriminazione e senza accesso legale. Ma ancora la Suprema Corte, dopo avere riconosciuto ai sequestrati di Gitmo almeno il diritto alla rappresentazione legale, non ha sciolto la matassa di sentenze, appelli, ricorsi, petizione ingarbugliati da 12 anni di incertezze. I difensori del Gulag nella sabbia fanno notare come una dozzina dei detenuti liberati si siano rituffati in pieno nella guerra e siano ricomparsi in Afghanistan, in Libia, in Siria tra le file delle nuove organizzazioni terroristiche.
Gli oppositori rispondono che proprio quel campo di concentramento è un formidabile strumento di propaganda e di reclutamento per i gruppi del fanatismo anti occidentale e il possibile ritorno di qualche ex detenuto nelle file del terrorismo è ben poca cosa rispetto alle schiere crescenti della jihad violenta.
I campi ancora in funzione, tre sui cinque iniziali, hanno visto introdurre condizioni più umane, per coloro che si comportino bene per un periodo di 90 giorni. Sono state formate zone comuni, nelle quali possono incontrarsi, parlare, pregare insieme. Un monitor di PC protetto da una gabbietta di ferro e collegato in Rete permette di comunicare via Skype con famiglie e amici lontani, ma il numero di suicidi, già tre in questo 2014, resta alto. Come altissime sono le richieste di trasferimento dei Marines — Gitmo è una base della US Navy — costretti a fare da carcerieri, spesso in condizioni materiali non molto migliori di quelle dei loro sorvegliati. «Sei in una piccola stanza», dice uno di loro ai giornalisti. «Non ci siamo arruolati per fare la guardie carcerarie» Obama e il suo ministro della Giustiza, Holder, promettono e si contraddicono, anche loro condizionati dalla imminenza di elezioni, con sondaggi che danno una maggioranza schiacciante, il 70%, di americani favorevoli a lasciare in funzione Guantanamo. Dunque Gitmo rimane, intrappolato da dodici anni in quella zona crepuscolare, in quella equivoca Twilight Zone legale e morale che la Costituzione americana, e il buon senso, dovrebbero avere chiuso da tempo.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 2/9/2014