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 2014  settembre 02 Martedì calendario

L’OROLOGIO CINESE

I cittadini di Hong Kong? Non sono an­cora pronti per la democrazia, non sono abbastanza maturi per potersi concedere il lusso di scegliere, in au­tonomia, i loro governanti. Debbono, insomma, attenersi al modello di Pechino: la «democrazia con caratteristiche cinesi».
È quanto pensano, nelle segrete stanze, i lea­der del governo cinese. Lo si è capito dagli eventi degli ultimi giorni: Pechino ha deci­so, infatti, che nelle votazioni del 2017 a Hong Kong ci sarà il suffragio universale, ma i quattro milioni di elettori (su una popola­zione di circa sette) potranno scegliere i lo­ro candidati solo in una lista di due o tre no­mi indicati da un comitato di 1.200 membri, costituito da persone selezionate dal gover­no cinese e da quello locale, oltre che da rap­presentanti del mondo degli affari.
A Hong Kong già da anni esiste un tasso di libertà di stampa introvabile nel resto della Cina; già è concesso di far girare libri che, in­vece, nei territori dell’immensa Repubblica vengono fatti sparire (è il caso della monu­mentale biografia ’Mao, la storia scono­sciuta’: nel 2005 la trovai in aeroporto a Hong Kong, dopo averla cercata invano nel­la grande libreria sulla Wangfujing di Pechi­no); già si possono organizzare manifesta­zioni di protesta che oltre confine dell’ex co­lonia britannica, a tutt’oggi, sono fanta­scienza. Ma un conto è lasciare i diritti di parola, un conto è cedere le leve effettive del potere.
E se poi il ’vizio’ democratico infettasse an­che il ’Regno di mezzo’? Cosa succedereb­be se anche nella Cina continentale pren­desse piede un’effettiva democrazia? Che fine farebbero la stabilità e la sicurezza na­zionale, i totem davanti ai quali Pechino non esita a sacrificare, non da oggi, i diritti di milioni di persone?
Per tutte queste ragioni, in Cina continua­no a pensare lo slogan tanto sbandierato al­l’indomani del 1997, «Una nazione, due si­stemi », vada interpretato alla luce delle con­venienze politiche. Al momento dell’accor­do, invece, con quella formula si voleva sot­tolineare l’effettiva peculiarità di quel terri­torio, ossia il fatto che la città di Hong Kong – che sotto la dominazione inglese aveva ’assaggiato’ la democrazia – avrebbe potu­to godere per 50 anni di «un alto livello di au­tonomia, fatta eccezione per le questioni e­stere e di difesa». Di fatto, anche dopo il ri­congiungimento con la madrepatria, a Hong Kong era stato concesso, in virtù della sua storia, un sistema legale ad hoc e il mante­nimento di diritti fondamentali che in Ci­na ancora adesso si possono solo sognare (libertà religiosa compresa).
Da allora ad oggi, il leader dell’ex colonia è stato eletto da una Commissione che e­sprime l’establishment economico del Ter­ritorio. Tale soluzione era stata presa per dare il tempo alla popolazione di ’fami­liarizzare’ con i nuovi sistemi, così da ar­rivare al voto del 2017 al termine di un cammino democratico.
Con le ultime, anacronistiche decisioni Pe­chino fa capire che c’è ancora bisogno del­la Grande Balia. Arroccati nelle stanze del potere, i mandarini di Pechino non si ac­corgono (o fingono di farlo) che quasi 800 mila cittadini – tanti hanno partecipato, a Hong Kong, al referendum sul sistema po­litico preferito, tenutosi fine giugno – si sono espressi chiaramente per un vero suf­fragio universale. Dimenticano che quasi 500mila persone hanno manifestato, co­me ogni anno, nella Marcia per la demo­crazia del primo luglio. Fingono (o spera­no) che tutto rimanga com’è, per conser­vare ciò che a loro sta più a cuore: il po­tere. Ma l’orologio della storia ha lancet­te impossibili da bloccare. Si aprirà una via cinese alla democrazia, che non sarà necessariamente uguale a quella che ab­biamo sperimentato a occidente, ma che non potrà mai esserne solo una povera e tortuosa imitazione.