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 2014  settembre 01 Lunedì calendario

MAROCCO, MANO A RE MOHAMMED VI

Marrakech
Il centro di Marrakech, la città più vivace del Marocco, è caotico. Il traffico sembra non seguire alcuna regola apparente, tra asini, auto, carri e biciclette. I marocchini sul motorino, senza targa, sono tanti. Stranamente quasi tutti hanno il casco. “Merito del re, un giorno è arrivato qui in città e ha chiesto: perché qui girano tutti senza casco?”. Dal giorno dopo guai a chi era a capo scoperto. E perché caffé e ristoranti sono così attenti a non invadere i marciapiedi? “Un giorno il re si è lamentato che a Marrakech non si riusciva a camminare perché i tavolini ingombravano il passaggio. La mattina dopo c’era una ruspa pronta a spianare chi non aveva recepito il messaggio”, ti spiegano. Mohammed VI è un sovrano misterioso, amato, riservato, con un presa fortissima sul Paese, ma abile a esercitarla trasmettendo un senso di apertura, di progresso. In questi giorni si celebrano i 15 anni del suo regno, le rare edicole del Paese col più alto tasso di analfabetismo del mondo arabo espongono settimanali con copertine identiche: tutte dedicate a lui, Mohammed VI, “dal sultano al re”, titola il magazine in francese più diffuso, Tel Quel.
PIL IL KEYNESIANO DEL MAGHREB
A modo suo Mohammed VI, 51 anni, è un caso mondiale: l’ultimo re a guidare davvero un grande Paese – 30 milioni di abitanti – e con un certo successo: il Marocco cresce, Pil +3,9 per cento nel 2014 (ma la ricchezza annua prodotta è meno di un decimo di quella dell’Italia, 104 miliardi di dollari) e disoccupazione al 9,1, è riuscito a evitare le illusioni delle primavere arabe del 2011 e le successive tragiche conseguenze grazie all’intuito del sovrano che ha combinato riforme progressiste e concessioni agli islamisti conservatori. Il suo patrimonio personale, calcola Forbes, è di 2,5 miliardi di dollari, perché non c’è praticamente alcuna distinzione tra beni dello Stato e beni del sovrano, questo lo rende più ricco della regina Elisabetta. Eppure di lui si sa pochissimo. Dieci anni fa, nel libro “Marocco, romanzo” (Einaudi), lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun lo definiva “uno degli esseri meno intellegibili del Paese”. Una volta, a una festa, Alain Delon gli ha chiesto l’autografo. Il monarca era perplesso dall’inversione dei ruoli. Poche le informazioni disponibili, tutte incerte: “È un uomo riservato, ossia discreto, così discreto che detesta la società dello spettacolo. È un lettore (si è appassionato alle Benevole di Johnatan Littel), pare che ami i film indiani popolari, quelli di Bollywood, inoltre è un grande intenditore di pittura, in particolare degli orientalisti del XIX secolo. Compra anche opere di pittori marocchini contemporanei, così ha rilanciato il mercato dell’arte in Marocco. Non ama il rumore, il baccano, le cerimonie interminabili, la perdita di tempo e ha un’alta nozione del suo ruolo”, scrive Ben Jelloun. Preferisce “parlare con i fatti”, come ripetono all’unisono i giornali marocchini.
I fatti ci sono, perché Mohammed VI assomiglia alla figura che tanto piace agli economisti, quella del “dittatore illuminato”, detentore di un potere decisionale assoluto che agisce non nell’interesse di qualche gruppo ma della collettività. Il sovrano è riuscito a dare un po’ di legittimità al Parlamento e a ridimensionare il Makzhen, cioè la “casta” di burocrati e funzionari che avviluppa la corte cercando di preservare lo status quo. Mohammed VI è un keynesiano , le sue politiche economiche sono tradizionali e funzionano: strade, industria, edilizia, più sostegno assistenziale alle aree che hanno meno potenzialità di sviluppo. Politiche anche timidamente criticate perché molto ambiziose. Come la costruzione del grande polo logistico Tangeri Med o del nuovo scalo di Safi, parte di un grande piano portuale che vuole valorizzare la posizione strategica del Marocco nel mediterraneo, o la rete autostradale (obiettivo: 1800 chilometri entro il 2015, oggi ci sono già progetti per 1416), tram a Casablanca che sembrano pensati per Helsinki o Bruxelles, e soprattutto una costosa rete di treni ad alta velocità. È il progetto che Mohamed VI segue con più passione: 20 miliardi di dirham (circa 2 miliardi di euro) per collegare le grandi città tra loro in meno di due ore, comprando treni dalla francese Alstom. Obiettivo: sei milioni di passeggeri all’anno, a fine 2013 i lavori erano al 60 per cento. Nelle aree desertiche il re combina piani di assistenza con tentativi di sviluppare le fonti di energia rinnovabile, soprattutto solare e fotovoltaico, visto che di sole non ne manca.
LA PRIMAVERA NON C’È STATA
Spingere l’economia non è però sufficiente a contenere le tensioni che covano nella complessa società marocchina. Nel 1994, nella sua tesi di dottorato, Mohamed VI si dichiarava scettico sul coinvolgimento degli islamisti nella dinamica democratica, “anche se la loro legalizzazione potrebbe rendere possibile controllarli e incanalare la loro energia verso l’azione politica legittima”. Ma appena arrivato al trono ha dovuto confrontarsi con l’ascesa del PJD, il Partito della giustizia e dello sviluppo, che nel 2011 ha vinto le elezioni ha espresso il suo leader come premier, Abdeliah Benkirane. Ma Mohamed VI è stato abile nella sua strategia di contenimento. All’inizio del suo regno ha ridato dignità alle elezioni, convinto che è meglio avere partiti decenti che movimenti incontrollabili: unico leader africano, ha istituito una commissione sugli anni di piombo del Marocco (1956-1999), quelli del brutale regime poliziesco di suo padre, Hasan II. L’Istanza per l’equità e la riconciliazione ha analizzato 29.000 casi di persone scomparse, uccise, arbitrariamente imprigionate o comunque colpite dal regime, in molti casi le vittime sono state risarcite, molti prigionieri politici rilasciati. Poi il re ha cacciato i ministri fedeli al padre, ha imposto elezioni regolari, ha riformato la giustizia militare e nel 2011 – nello spirito delle primavere arabe - ha lanciato la nuova Costituzione che garantisce più diritti e ridimensiona il potere assoluto della monarchia (che non regna più per diritto divino). Nella sua qualità di comandante dei fedeli, Mohamed VI ha reagito all’ascesa degli islamisti e agli attentati a Casablanca nel 2003 e poi in varie città, cercando di consolidare l’Islam moderato di rito malikita tipico del Marocco. Mentre i cittadini manifestavano a migliaia contro gli jihadisti, “giù le mani dal mio Paese”, il re avviava un discreto processo di formazione di imam: arrivano a centinaia a formarsi nelle moschee e nelle madrasse del Marocco, dal Mali, dalla Nigeria, perché è meglio prevenire che curare. E, per evitare tentazioni, a fine luglio ha vietato per decreto agli imam di fare attività politica o sindacale mentre svolgono il loro incarico religioso. Nel 2004 il re è anche riuscito, al secondo tentativo, a far passare la Moudawana, il nuovo codice del diritto di famiglia che garantisce uno status giuridico più forte alla donna. Ma gli attivisti per i diritti civili denunciano che i giudici possono comunque- in modo arbitrario – autorizzare matrimoni con spose minorenni o la poligamia. Le quote rosa stanno portando però molte donne in Parlamento e nelle rappresentanze locali.
C’è soltanto un campo in cui l’azione del re non si percepisce: neppure la stampa compiacente riesce ad attribuirgli un effetto taumaturgico sulla corruzione. In Marocco, posizione 91 su 175 della classifica di Transparency International sulla corruzione percepita, la tangente è pratica consolidata, a tutti i livelli, esperienza quotidiana: la polizia ferma gli automobilisti, minaccia multe che svaniscono in cambio di banconote da 100 dirham (10 euro), una per ogni poliziotto presente sul luogo della contestazione. Ottenere certificati e permessi senza lasciare qualcosa al funzionario è praticamente impossibile. Neppure Mohammed VI riesce, o vuole, scardinare il sistema della banconota che passa discreta con la stretta di mano. Eppure lo sviluppo del Marocco dovrà passare anche alla lotta alla corruzione, non solo dalle infrastrutture.
Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 1/9/2014