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 2014  settembre 01 Lunedì calendario

“IO E ANTONIONI: TRENT’ANNI AMICI, FINO ALLA FINE”

[Gianni Massironi] –
Dalla stazione ferroviaria di Attigliano arriviamo a Bomarzo, l’antica Policastrum in piena Tuscia viterbese a un soffio dai confini umbri tra un bosco millenario impenetrabile e il parco dei mostri voluto dal principe Pier Francesco Orsini detto Vicino “sol per sfogare il core”. È qui che inizia la nostra giornata particolare attraversando una strada impervia che all’improvviso regala una panorama struggente. Lo ammiriamo dalla casa di Gianni Massironi, milanese di origine e romano di adozione, la cui fotografia è nella collezione permanente del Moma di New York.
“Tutto qui è rimasto immobile come millecinquecento anni fa. Quando ci portai Michelangelo Antonioni a vederla mi guardò perplesso: perchè Bomarzo? Non capivo la domanda e solo dopo mi spiegò che il suo terzo documentario l’aveva girato proprio lì, documentario che poi è andato perduto e solo pochi anni fa è stato ritrovato, per caso, in una cineteca del Friuli.” Profezia di un’amicizia che è durata ben trentuno anni quella tra Massironi, poco più che ventenne e Antonioni.
Ma come si fa a incontrare Antonioni per un giovanissimo e promettente sociologo impegnato – dopo i moti del ’68 – nel sogno di riformare l’università italiana prendendo a modello quella “critica” di Francoforte? È necessario un passo indietro.
“Facevo parte di una Commissione sperimentale insieme a Mauro Rostagno, Marco Boato e Corrado Brigo – racconta Massironi – con i professori Andreatta, Alberoni e Bobbio. In quegli anni situo la mia vera nascita, quella in cui ho sognato la possibilità di realizzare un progetto di Riforma che mettesse al primo posto l’importanza di una università di massa scientificamente qualificata. Un sogno infranto dalle stragi di piazza Fontana e da quelle successive e dalla situazione critica del paese che ha bloccato ogni tentativo di un serio riformismo che incidesse sulle strutture basilari italiane in ogni campo”.
Massironi non si arrende però e l’attrazione per il cinema insieme alla voglia di dare un contributo al cambiamento lo porta a Parigi, nella casa in cui Lenin ha vissuto prima della Rivoluzione d’ottobre. Lì realizza un corto che rappresenta il primo successo della sua vita intitolato The lack: l’assenza della rivoluzione, appunto, che apprezzato da Rossellini lo porterà al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Ma torniamo al Maestro. Il primo incontro con Massironi avviene nell’estate del ’76 in un tratto della costa nord della Sardegna: “Quel pomeriggio ci eravamo persi tra le strade sterrate e polverose, non riuscivamo a trovare la strada di casa. All’improvviso e a gran velocità sentiamo arrivare una macchina, mi sono affrettato a bloccarla e, in una nuvola di polvere, si è materializzato proprio lui, Michelangelo Antonioni. Gelidamente ci ha fornito tutte le informazioni per ritrovare il percorso ed è ripartito subito con un balzo, di corsa. Qualche ora più tardi verrà a farci visita la sua assistente per portarci l’invito a cena del Maestro. Quella fu la prima di una serie di numerose e bellissime estati insieme. La qualità più macroscopicamente travolgente di Michelangelo era il suo grande stile. Si dice che lo stile è l’uomo ma Lacan precisa lo stile è l’uomo a cui ci si rivolge. Nulla è più vero nel caso di Antonioni. La ricerca della qualità in tutte le cose. Oggi questa forma di attenzione, di sensibilità e di cura estrema per i particolari non esistono più. Oggi, nella maggior parte dei casi, ci sono dei nani e il confronto è impossibile”.
“Sembrava freddo, era la sua corazza, forse ci giocava un po’ per poi sorprenderti con geniali illuminazioni: ammiravo la sua vitalità, era un perfetto trentenne di settant’anni. Dormiva sempre e solo tre ore per notte. Alle cinque del mattino era già tra i suoi fiori, per innaffiarli.”
Difetti? “L’impazienza, sì. Era un uomo che ‘faceva’ e fu anche ferito da un ‘sistema’ che non voleva capire. Alcuni suoi film furono bloccati anche dopo settimane di lavorazione. Quei rifiuti gli procurarono molta tristezza ma mai scoraggiamento”.
Aveva quasi novantacinque anni quando è morto. Era il 30 luglio del 2007. “Eravamo appena rientrati dalla sua casa di campagna insieme a Stella, la sua fedelissima assistente. Ricordo che si fermò sulla porta e guardandomi disse: basta. La sua vista si era ridotta per una patologia progressiva che pian piano gli aveva tolto ciò che per lui era la cosa più importante: lo sguardo. La capacità di filtrare il mondo e di capirlo prima degli altri, per poterlo raccontare. Smise di mangiare. Beveva solo del tè e ascoltava musica. Ha vissuto così gli ultimi giorni della sua vita scegliendo di morire come desiderava: con stile, a suo modo. Non era un credente, aveva una visione della vita cosmica, non temeva la morte perché la considerava un fatto naturale, semplice. Diceva sempre: ‘proprio perché c’è la morte dobbiamo vivere fino all’ultimo minuto’. Per chi fai i film gli chiedevo? Faccio i film per uno spettatore ideale che è me stesso quando sono al massimo: così diceva. Oggi non esiste più questo rigore ma soltanto una rincorsa al peggio eppure c’è un pubblico che vorrebbe e che meriterebbe quel massimo. Una nazione che dimentica e rimuove i suoi uomini migliori non ha futuro.” Il museo Antonioni a Ferrara attende di essere aperto da circa venti anni. Forse è arrivato il momento di dire un altro “basta.”
Cristiana Panebianco, il Fatto Quotidiano 1/9/2014