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 2014  agosto 31 Domenica calendario

“COSÌ NERO DI CARBONE, SEI PROPRIO TU FIGLIO MIO?”

A saldare i pavimenti di una nave. A scaricare antracite dai treni. A forgiare pezzi di alluminio. Tra fabbriche e cantieri, sono questi i mestieri che gli italiani si ritrovano a svolgere nel 1959. È l’altra faccia del boom economico, del progresso e del benessere che si diffondono nel Paese. È la faccia pulita, di milioni di persone oneste e generose che accettano la sfida di lavori estenuanti pur di garantire dignità sociale a se stessi e alla famiglia di appartenenza. È la faccia livida, di chi è costretto a respirare esalazioni nocive tutto il giorno come accade a Genova all’emigrato siciliano Antonio Sbirziola. È la faccia sporca di chi, come l’operaio modenese Walter Ferrarini, a fine turno non viene riconosciuto dalla madre, perché ha il volto sepolto sotto una crosta di carbone. Ma è anche la faccia sbigottita di Alvaro Tanzini, prima contadino e poi operaio della provincia di Siena, quando si ritrova al cospetto della “conchiglia” della macchina che lo stabilimento svizzero “Alluminium A.G. Menziken” gli affida per fare la sua parte nella catena di montaggio. Vorrebbe capire quale oggetto si accinge a produrre, probabilmente per migliaia di volte consecutive, facendo colare il metallo fuso nello stampo. Vorrebbe ma non ci riesce, ha davanti agli occhi qualcosa di informe e i compagni lo deridono. Nessuno in fabbrica sa cosa produce, e per quale utilizzo. Si lavora, si aspetta la paga. E basta.
Nicola Maranesi, il Fatto Quotidiano 31/8/2014

L’APPRENDISTA – “MI GUARDO INTORNO E SEMBRA DI ESSERE AI LAVORI FORZATI” –
Walter Ferrarini nato a Modena nel 1930
Nato in una famiglia numerosa e costretto a lavorare fin da piccolo presso un barbiere, un pensionato, poi diventa operaio presso le acciaierie di Modena, ricorda i turni stressanti, la fatica della vita in una fabbrica ferriera, il riscatto culturale con la frequenza della scuola serale e le prime rivendicazioni sindacali.
Mi presentai all’ufficio della fabbrica; l’impiegato, un tipo con la testa mezza pelata, da dietro lo sportello, mi squadrò al di sopra degli occhiali: “E tu cosa vuoi?”. “Voglio lavorare”, risposi. L’impiegato scrisse su un foglio i miei dati e disse: “Con questo va all’ufficio di collocamento. Se ti danno il nulla osta, per noi andrà bene e sarai assunto, in ogni caso, secondo me, non durerai più di tre giorni! A me pareva che dopo quello che avevo passato durante la guerra, niente m’avrebbe spaventato. […] Potevo contare su una paga oraria di manovale apprendista, pochi ma sicuri di lire 9,30. In ferriera ho lavorato 36 anni filati. Mi ricordo che nei primi giorni di quella orrida estate; mi prendeva una gran voglia di piangere, e di scappare a casa. Così quel lunedì mattina, pieno di entusiasmo cominciai a lavorare. Nel piazzale della fabbrica, che mi pareva enorme, mi guardai attorno. Le enormi aperture che immettevano nei capannoni, sembravano bocche pronte a inghiottire uomini e cose. Dall’interno s’udivano rumori rabbiosi, un vomitare di fumo e polvere. Quell’ambiente mi impressionò, mi pareva un luogo fatto apposta per ricevere i forzati a scontare, le loro pene, chissà per quale orribile delitto commesso. Mi ricordo che indossavo un paio di braghe di tela blu. Erano di un militare tedesco; nell’aprile del ’45 le aveva scordate, colpa della fretta di scappare verso il Passo del Brennero. La camicia, invece, era americana, color kaki, più fine e leggera. Le scarpe erano state amputate nella parte del calcagno per fare posto al piede che, cresciuto troppo, entrava a fatica. Fui assegnato al “piazzale”, la squadra addetta alla manovalanza per il movimento del materiale. In quattro salimmo, armati di badile, sul carro ferroviario pieno di antracite, da scaricare. Sotto il sole e lo sforzo, sentivo il sudore colarmi lungo le gambe, dentro quelle braghe che non permettevano l’evaporazione del calore, dalle quali non filtrava un filo d’aria. La camicia, se pur leggera, dopo un po’ era inzuppata.
“Prendila piano, disse l’operaio che era al mio fianco, se no non arrivi a mezzogiorno. Sei molto giovane - continuò, - ne avrai di crostini da rosicchiare”. Mi fermai a guardarlo: i suoi movimenti erano lenti ma continui, il badile non era mai completamente pieno e non era grande come il mio. “Buono a sapersi”, dissi fra me. Dopo due ore, passò il capo e disse: “Siete indietro, muovetevi, altrimenti questi vagoni andranno ‘in sosta’, non fate i lavativi se no c’è la multa”. Lungo la fila dei vagoni , tra lo sbatacchiare dei badili s’udì una voce “Ch’at ciapan’azzideint in dal grogn” (“che ti prenda un accidente nel grugno”). Quel vagone pareva non dovesse mai svuotare, mi tornava in mente la voce dell’impiegato non durerà più di tre giorni.
Cominciai a pensare che non sarei arrivato a sera. Alle cinque la sirena diede il segnale della fine, e tornai a casa, finalmente. La mia casa era circa a 200 metri dalla fabbrica e arrivavo a casa velocemente. Meno gente incontravo meglio era, avevo la faccia nera di carbone, trovare un rubinetto con l’acqua per darsi una lavata alla faccia non era una cosa facile. Le bombe avevano colpito la fabbrica e andarono distrutti buona parte dei servizi di docce. Con la faccia, mascherata di polvere di carbone e sudore ero quasi irriconoscibile. “Povero figliolo, diceva mia madre. Coraggio, un giorno troverai qualcosa di meglio da fare”, ma io volevo farcela! Non mi sarei arreso tanto facilmente! […]
Alcuni degli operai venivano dalla campagna e la sera aprivano un cartoccio con dentro qualche fetta di prosciutto. Per me, l’affettato di quel tipo, era solo un lontano ricordo, ma il suo antico profumo si risveglio improvviso: le mie budella ebbero uno scatto repentino, allora l’operaio, che aveva capito il mio dramma, a volte, me ne diede una fettina.
Per qualche mese continuai a scaricare carbone, cominciai a fare il callo e stavo superando l’iniziale disagio. Buona parte degli operai, salvo qualche anziano diffidente e geloso, era stato per me un aiuto molto importante. Cominciai a partecipare alle riunioni del sindacato e m’entusiasmavo alle parole dei dirigenti. Il padrone rendendosi conto di averla scampata bella, diceva: “Coraggio, cari operai, mettiamoci a mangiare la polenta insieme!”. Poco dopo, lui il padrone cambio menù. Le nostre povere case erano vuote, avevamo bisogno di tutto, le ferite della guerra erano ancora aperte. L a speranza di migliorare era viva. Ci rendeva capaci di perdonare ma non di rinunciare alle giuste richieste. Un giorno mi mandarono in un altro reparto avevano bisogno di forza giovane. Mi ritrovai così con la faccia davanti al fuoco della fucina. Sotto la direzione del maestro fabbro, imparai a scaldare i pezzi di ferro alla giusta temperatura, senza bruciarli. Eravamo in tre garzoni e ci divertivamo a roteare le mazze con velocità e forza. Il maestro diceva: “Io proprio non vi capisco, dopo due ore e mezzo di mazzate, invece di essere stanchi, continuate a battere più forte!”.


IL SALDATORE AL CANTIERE NAVALE – “DOPO TANTO SUDORE, SOLO PANE E CAROTE. MA IO IN SVIZZERA NON CI VADO” –
Antonio Sbirziola nato a Butera (Cl) nel 1942
A soli dodici anni, in un piccolo paese siciliano, Antonio lascia la scuola per contribuire al mantenimento della famiglia. Deve farlo, sono sette figli e la piccola ricchezza parentale se n’è andata: un discreto pezzetto di terra, a ripianare la perdita di un prestito fatto e non restituito, e una casa agricola e il bestiame perduti per l’esplosione di una polveriera americana in tempo di guerra. Dall’apprendistato come barbiere al lavoro di saldatore, fino alle speranze trasformate in delusioni di un periodo trascorso a Genova, dove alterna lavori duri e saltuari tra edilizia e metalmeccanica. Nel 1961, le occupazioni precarie e i sacrifici costringono il ventenne Antonio a imbarcarsi verso l’Australia. Il suo diario sarà poi pubblicato nel 2012 dal Mulino nel 2012 (“Povero, onesto e gentiluomo. Un emigrante in Australia 1954 - 1961”).
Arriviamo accasa di questa famiglia, zio me la presenta ci offre il caffe, la mia stanza e pronta. Qua io mi devo farmi da mangiare, e la pulizia, io pago solo laffitto. Giovanni e Rosa. Con tanta gentilezza mi parlano e mi scherzano loro io mi sento su di morale. Alla mattina Giovanni mi chiama in orario vado con lui, mi paga il viagio. Giovanni e manovale con 12 anni di servizio e lui conosce a tutti nel cantiere. Arriviamo lui tinpera la cartella, e mi porta in ufficio, e mi presenta a un signore, Luigi Fiorino. Questo Luigi Fiorino e il capo cantiere del reparto di costruzione. Mi presenta i conpagni di lavoro , mi mostra quello che devo fare. Luigi mi raccomanta a un altro che se mi trovo in difficolta mi aiuta. Ce una saldatrice assai grante, con tanti bottoni. Io ho latrezzi pero non so dove attacarle, mai o vista una saldatrice cosi grante, mi metto a guardarla che non ci capisco poco e niente. Quelsignorechemiaraccomantato, mi guarda e viene da me sorridento e mi dice, vuoi aiuto? Le risponto, una bestia cosi non lo visto mai. Risponte, e facile e solo la grantezza che inpressiona. Arriva Luigi e mi dice, Antonio tutto va bene? Le risponto non angora, mi trovo in dificolta che io non so cosa devo fare. Lui mi mostra il lavoro. Lo ringrazio e mi metto allavorare, per la prima giornata tutto bene.
Il nome della nave e la Leonardo da Vingi. Ce il pavimento da saldare, e gli altri mettano la legname per pavimento. Il lavoro va tutto bene, e ora di saldare mi trovo in difficolta, la prima giornata e antata bene, pero le brave persone si trovano senpre. Al lavoro tutti mi vogliono bene, sono timido quanto parlo con loro, dovrei essere piu spontanio verso di loro. Da due settimane che lavoro in questo cantiere e di come vedo io sono il piu giovane di eta.
Giovanni, il patrone di casa e gelosodime,nonmilasciacucinare la mia cena, di come siamo rimasti. Io quasi tutti i giorni mi lavo gli intumenti personale, pero devo lavarli alla mattina presto che la moglie non e mezzo i piedi. Io mi sento un po scomodo, devo mangiare nella mia camera da letto, e se voglio un bicchiere di acqua, non lo posso tenerlo nel figorifero. Dopo che o fatto cena lo chiamo, e lo porto davante la moglie. Le dico, Giovanni e tu Rosamisodispiaceperoinqueste contizione io non posso vivere in questa casa il primo giorno che sono venuto qua eravate assai gentile, adesso non mi posso muovermi. Io vi ringrazio di avermi aiutato di avermi trovato il lavoro. Pero tu Giovanni non capisco perche sei geloso, io a tua moglie la rispetto come una sorella. Se tu ai da dirmi qualche cosa tu Rosa? Prentami a schiaffi. Rosaneanchemirisponte,abassa gli occhi per terra si alza e dice, e meglio che faccio una tazza di caffe. Le dico a lui, non sei contento del rispetto che porto a te e tua moglie? Mi guarda fisso in faccia e mi risponte, se non ti rispettiamo e che tu al giorno e alla sera neanche mi salute a me, cosa ti o fatto io? Giovanni io a te senbre ti o salutato, sei tu che non mi risponti. Io vengo di un Paese piccolo che ci sei stato e io no al paese che vieni tu, e io lo sentito dire di come siete gelosi. Pero ti dico una cosa, se io ci o da insultare le donne vado a cercare quelle scapoli, non alle donne sposatecheabitonellastessacasa. Giovanni mi guarda con odio, e le viene il sorriso. Nella mia vita o lavoratoper12anniofattoilcontrabanto e nessuno mi a rinproverato di come ai fatto tu, questa sera. Per dieci giorni non mi parlano, e neanche mi salutano a me. [...] Il venerdi sera lo racconto a zio di quello che a successo. Zio mi dice non ti preoccuparti che ti trovero un altra casa.
Il mio penziero e verso papa e mamma che anno bisogno. Il mio sagrificio e senpre lo stesso, Mangio pane e carote e anche solo. Dopo mangiato mi siedo nel letto e leggo finche mi prente il sonno. […] Siamo arrivati a Settenbre. Mamma mi scrive che i miei fratelli sono emigrati in Svizzera, col contratto di lavoro, in cerca di fortuna. Io ogni mese le [do] 10 mila lire. Io non posso mantarle di piu, e solo un piccolo penziero che o verso Mamma e Papa. Dopo un mese Mamma mi fa sapere che i miei fratelli le hanno mantato i primi soldi, 100 mila lire. Che guadagnano bene, lavorano nella costruzione con una conpagnia Italiana. Mi chiede se voglio antare al-lavorare anche io con loro. Le risponto che mi fermo a Genova.
Siamo vicino il santo Natale, i miei fratelli ritornano in Italia che hanno il contratto estivo. Mamma mi fa sapere che Rocco e Salvatore hanno guadagnato, 500 mila lire del tenpo che sono state in Svizzera, e vuole che vado pure io. […] Io mi devo convidarmi con zio, di fronte a lui. Le dico zio oggi Mamma mi a scritto, e le mostro la lettera. Zio la legge lui si fa la risata. E mi risponte, io non so cosa dirti se vai in Svizzera, la vita non e lo stesso della citta. Qua siamo nella civilizazione, la Svizzera e per lemigrante una terra di sacrificio. Se qua tu sai come intustriarti, farai una buona vita.


IN FONDERIA – “FATICARE, SENZA SAPERE CHE ROBA SI FA, È ALIENANTE NON CONOSCI MARX?” –
Alvaro Tanzini nato Casole D’Elsa (Si) nel 1930
La vita normale di un uomo normale, da contadino fino all’età di 23 anni, poi bracciante, manovale, operaio, disoccupato, emigrante e sindacalista, si condensa nel ricordo di anni cruciali, a cavallo tra la giovinezza e l’età adulta, fra un’emigrazione temporanea in Svizzera e la morte del padre.
Primo giorno di lavoro. Giampiero mi accompagna in fabbrica e mi consegna a un uomo grasso con la tuta di fustagno. Lui ha già seguito la trafila. La fabbrica è situata all’estremità del paesino, in mezzo alla campagna.
È grande e di aspetto moderno. Ho visto entrare diecine e diecine di operai, quasi tutti italiani. Alcuni li ho già conosciuti. “Kom!”, dice l’uomo. Lo seguo attraverso un magazzino pieno di carrelli, mucchi di alluminio e grandi casse, aperte o sigillate. Appoggiati alle pareti vi sono aggeggi enormi dei quali non riesco ad immaginare la funzione: cerchioni, cilindri, mezzelune e piastre. Grosse lampade al neon pendono dal soffitto. “Kom!”, ripete l’uomo. Attraverso un portone spalancato usciamo all’aperto, in un cortile ingombro di rottami, cassoni metallici pieni di terra bruciata, matasse di filo di ferro arrugginito. Da una parte incombono mura umide e grigie con ampie finestre dai vetri appannati . Dall’altra parte un massiccio recinto sul quale pendono rami di melo. […] La mia guida sale piano, faticosamente, una scaletta di ferro sistemata all’estremità di un lunghissimo stanzone. Vedo uomini al lavoro, macchine e forni, bagliori di metallo incandescente, cavi che pendono oscillando e motorini elettrici che si muovono lungo un binario sopraelevato. L’uomo apre la porta e mi lascia passare. Vedo una ragazza con gli occhiali che batte sui tasti di una macchina da scrivere. Ovunque – su tavoli e mensole, appesi alle pareti, ammucchiati sull’impiantito – vedo oggetti di alluminio. Sento il brusio continuo delle macchine e degli uomini, dei forni e dei motori. […] Scendiamo le scale e ci inoltriamo lungo l’immenso capannone. Camminando piano alle spalle del vecchio mi guardo un po’ attorno. Vedo macchine strane, con forme d’insetti, ragni o coleotteri, davanti alle bocche dei forni, con ramaioli dai lunghi manici, il metallo fuso e lo versano dentro gli stampi incorporati al telaio delle macchine. Intorno a ogni macchina vedo un groviglio di tubi di gomma ognuno dei quali parte da un attacco a livello d’impiantito. In cima a ogni tubo e infisso un bocchettone di metallo fissato con appositi morsetti al telaio della macchina e dal quale scaturisce, azzurra e sibilante, la fiamma del gas.
Nell’aria è sospeso un pulviscolo di polvere e fumo. Ci viene incontro, lungo il corridoio, un uomo zoppo con i cappelli folti, il viso magro e lo sguardo severo. Indossa anche lui una tuta di fustagno dalle cui tasche spuntano chiavi e cacciaviti. Il vecchio parla un attimo con lui, mi sorride, si volta e torna indietro. “Kom!” dice lo zoppo. Mi porta vicino a un forno e mi mostra una macchina ferma. Poi comincia a darmi dimostrazioni sul modo di usarla: alza una leva e lo stampo si apre, aggiusta i bocchettoni, accende il gas e dice alcune parole che naturalmente non capisco. Intanto, però, si sono avvicinati alcuni connazionali – un calabrese, un bergamasco, un veneto – e tutti quanti cominciano a tradurre le parole dello zoppo, a darmi istruzioni e consigli, a parlare del più e del meno.
Dopo cinque minuti lo zoppo chiude la conchiglia (ho già imparato che lo stampo si chiama in questo modo) prende il ramaiolo, si avvicina al forno, pigia un pedale azionando il meccanismo che apre lo sportello, attinge il metallo, torna indietro e vuota lentamente la conchiglia. In attesa che il metallo si raffreddi estrae di tasca una scheda gialla e me la porge. “C’è scritto quanti pezzi devi fare,” dice il veneto. “ È il tempo del cottimo.” “Fregatene!” dice il bergamasco. “Tanto il cottimo, qui, non si becca mai”. “Mica vero,” dice il calabrese. Lo zoppo apre la conchiglia e con la pinza prende il pezzo – che emana calore e lucentezza – lo solleva e lo guarda attentamente. Lo guardo anch’io e non ci vedo niente di particolare. È una specie di bruco intirizzito, con molte zampe. “Gut!” Lo zoppo scaraventa il pezzo in un carrello parcheggiato nei pressi della macchina, posa la pinza e si allontana a passo svelto, con la sua gamba ranca. “Ha detto che va bene”, traduce il calabrese. “Puoi cominciare”. Prendo la pinza, afferro il pezzo e lo guardo di nuovo, accuratamente. “Che roba è? – domando - Non riesco a capirlo”. Il bergamasco ride. “ Fregatene!”, dice. “Nessuno di noi capisce che cazzo di roba fa”. ”Non c’è soddisfazione a lavorare senza sapere che cazzo di roba si fa. È alienante. Non conosci Marx?”. “No, che me ne frega.” Scoppia di nuovo a ridere. “E a te che te ne frega, toscanaccio. Basta che ti paghino. Dai dai attacca!”. Poso il pezzo, chiudo la conchiglia, prendo il ramaiolo, vado al forno, attingo il metallo e faccio la prima colata. Così è cominciato il mio lavoro nella fabbrica Alluminium A.G. Menziken.