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 2014  agosto 31 Domenica calendario

UNA SCUOLA ISLAMICA NEL MUNICIPIO DI ROMA


A Roma si può indottrinare al Corano, come in una madrasa di Kabul, bambini di sei-sette anni, con copricapi e veli religiosi, sotto gli occhi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. È quello che succede in via di Acqua Bullicante 2, quartiere di Tor Pignattara, dove l’ex sala del consiglio del VI municipio (oggi V) da un mese è stato trasformato in centro islamico e moschea per volere del presidente Giammarco Palmieri, 41 anni, dal 1991 iscritto al Pds-DsPd. Nella sala ci sono ancora le scrivanie con microfono dei consiglieri e il ritratto di Napolitano incorniciato tra le bandiere di Roma e dell’Italia. Giovedì 28 agosto una decina di bambini trascrivono diligentemente in arabo i versi del Corano. I ragazzini sono quasi tutti originari del Bangladesh, tranne un piccolo pakistano che parla l’urdu. Lo striscione all’ingresso della “moschea” è scritto in bangla, l’idioma bengalese. Riporta il primo versetto del Corano e di seguito il nome dell’« associazione culturale islamica Tor Pignattara Jame Masjd».
Benvenuti a Roma Sud, in un quartiere che ormai è una piccola enclave del Bangladesh. Una comunità di 4 mila persone che per l’80 per cento sono musulmane e hanno importato nella Capitale usi e costumi bangladesi. Corano compreso. Qui i bambini lo studiano a memoria. L’estate dalle 10 del mattino alle 13 e dalle 17 alle 20. D’inverno solo il pomeriggio, dopo la scuola pubblica. Sembra di essere a Dacca, invece siamo, come recita un sito Facebook, a «Tor Pignattara a du’ passi dar centro» (per l’esattezza 6,7 chilometri dal Colosseo). Gli insegnanti della moschea con l’immagine di Napolitano sono due uomini barbuti. Il più vecchio è un imam vestito di bianco ed è diffidente. Inizialmente ci presentiamo come aspiranti studenti di arabo. Chiediamo di poter fotografare la sala per immortalare il curioso accostamento tra scuola coranica e Tricolore, con tanto di immagine del Presidente. L’imam ci nega il permesso. Napolitano osserva pensieroso quell’aula pubblica trasformata in un angolo di Islam. Il docente più giovane, Kawsar, 40 anni, topi (il copricapo religioso) e occhialini, è disponibile a dare ripetizioni di Corano nella lingua del Profeta: «A patto che prima delle lezioni facciate la doccia, laviate le braccia, il capo, la bocca, il naso». Gli chiediamo che lavoro faccia. «Sono disoccupato, c’è crisi» si immalinconisce.
Tor Pignattara è un conglomerato disordinato di case di epoche diverse, tagliato dai binari del trenino metropolitano sulla Casilina, la via consolare che conduce nel cuore di Roma. Il venerdì, il giorno sacro dei musulmani, si trasforma in una città araba, con alcuni marciapiedi occupati dai fedeli in preghiera.
Nei mesi scorsi Alì Ambar, un commerciante bengalese con due lavanderie nel quartiere, aveva aperto la sua moschea dentro a un garage con annesso cortile di 600 metri quadrati. Alcuni cittadini protestarono e dopo i controlli della polizia municipale la moschea fai-da-te era stata chiusa per la mancata destinazione d’uso a luogo di culto. Dopo lo sfratto Palmieri gli ha offerto la sala consiliare per pregare con alcune avvertenze, compresa questa: «La capienza della sala è di massimo 70 persone, non si può derogare sul numero delle stesse». In realtà durante la preghiera, come ha potuto constatare Libero, il numero di fedeli è assai maggiore e sfiora le cento unità, non essendoci alcun controllo all’ingresso. All’interno un lenzuolo separa il luogo di preghiera dal ritratto del presidente (nelle moschee non ci possono essere foto né raffigurazioni di esseri viventi). In terra al posto dei tappeti ci sono teloni di plastica blu. Durante le litanie un omino rubicondo e con lo sguardo guizzante avvicina i cronisti: «Chi siete e che cosa fate qua? Ve lo ha permesso l’imam? Ma lui non conta niente». E ci conduce all’esterno. Un egiziano che prega con i bangladesi si rammarica per il trattamento e ci consiglia di andare a Centocelle per trovare migliore accoglienza: «Ci sono persone meno rigide» dice, scusandosi.
Fuori dalla porta, compulsando su Internet fonti ufficiali, scopriamo che il Bangladesh è la quarta nazione al mondo per numero di musulmani (130 milioni), da tempo sull’orlo della guerra civile. Alle ultime elezioni locali si sono affermati il partito nazionalista e quello fondamentalista Jamaat-e-Islami.
Secondo il South Asian Terrorist Portal (Satp), molti membri dell’ala giovanile del partito fanno parte di un gruppo terrorista legato ai talebani afghani. Vicino ad Al Qaeda ci sono anche i mujaheddin dell’Harkat-ulJihad-al Islam. Nel febbraio scorso attraverso un video messaggio il capo di Al Qaeda Ayman al Zawahiri ha chiamato alla rivolta i musulmani del Bangladesh. Il governo da sempre contrasta con forza il terrorismo (le leggi severissime prevedono la pena di morte) e nel 2009 ha effettuato una retata in cui sono state arrestate 3 mila persone. Intanto nella moschea la preghiera è finita. A uscire per ultimo è il “buttafuori” che ci ha allontanato pochi minuti prima. È Alì Ambar in
persona, il fondatore dell’associazione. Ha 51annieda più di venti vive in Italia. Alì in questi giorni è particolarmente impegnato a trovare una nuova sede per il suo centro, visto che il permesso per pregare nella sala consiliare scade proprio oggi: «Chiederemo una proroga al Municipio», spiega. «La fila per utilizzare l’aula è, però, lunga e forse sarebbe più opportuno impegnarla per attività diverse dall’indottrinamento religioso e dall’insegnamento di un libro che predica il jihad, la Guerra santa»
commenta Fabrizio Santori, consigliere regionale della Destra, particolarmente impegnato in questo territorio.
Per acquistare il garage Alì e la sua comunità si erano autotassati e anche adesso l’associazione raccoglie fondi che finiscono su un conto corrente intestato allo stesso Ambar: «Ma noi non finanziamo i fondamentalisti», assicura. C’è chi lo fa nel quartiere? «Certo. Ma non so dirle i nomi». Ammette che i musulmani radicali frequentano anche il suo centro, ma che non può allontanarli: «Vengono a pregare. Girano per le moschee del quartiere, vanno soprattutto in quella di via Carlo Della Rocca». Il leader del centro patrocinato dal Municipio ha una visione del mondo tutta sua. Come le ricette per mantenere il decoro nel quartiere: «Qui c’erano dei rumeni che pisciavano per terra, bevevano, si drogavano. Le forze dell’ordine non facevano niente. Così ci abbiamo pensato noi. A bastonate». Un video sul sito “Tor Pignattara a du’ passi dar centro” mostra queste ronde organizzate di bengalesi armati e inferociti. La violenza bangladese sembra l’unica legge nella zona. Alì è orgoglioso delle sue squadracce: «Gli italiani hanno paura. Ci guardano agire dagli spiragli delle tapparelle». Un suo amico precisa meglio il concetto: «I vostri connazionali sono delle pecore. Si lamentano, ma poi l’ordine lo dobbiamo riportare noi».
Dopo aver conversato con il “moderato” Ambar, ci dirigiamo verso la moschea da lui considerata più dura, quella di via Della Rocca. Ci accoglie Uda, 60 anni, ex ambulante con problemi di asma e diabete. È lui l’imam. Sorride e alla domanda sul neonato Stato islamico e del Levante (Isil), risponde che il califfo Abu Bakr al-Baghdadi è un pessimo politico. Domandiamo se ci sia differenza tra la sua comunità e i fondamentalisti di Jamaat. Uda ribatte serafico: «I musulmani seguono tutti una sola direzione». Fuori girano diverse facce poco raccomandabili. Uomini con barbe lunghe lanciano occhiatacce ai cronisti, mentre donne con il burqa e il cellulare all’orecchio riportano a casa bambini in abiti tradizionali.
Gli italiani sembrano spaesati in una realtà tanto multietnica e nei mesi scorsi, nonostante la fama di popolo pacifico dei bangladesi, ci sono stati momenti di tensione tra le due etnìe. Le cronache raccontano di una rissa davanti a una moschea, in cui due stranieri hanno avuto la peggio. Il risultato è stata una protesta della piccola comunità asiatica con tanto di marcia, salutato da un lancio ostile di oggetti da tetti e finestre. Venerdì scorso un gruppo di romani improvvisa un’assemblea pubblica proprio di fronte all’ex sala consiliare con i musulmani riuniti in preghiera. Uno dei più accalorati del comitato di quartiere è Ugo, il padrone di un ristorante della zona. Per loro gli stranieri, bangladesi compresi, sporcano, sputano e non rispettano le regole. Raffaele, carabiniere in pensione, è arrabbiato: «Io uno di questi stranieri l’ho mandato all’ospedale per tre mesi». Ha 64 anni, ma sostiene di essere stato campione europeo e mondiale di kung fu. A Tor Pignattara vive con la moglie colombiana, vent’anni più giovane: «Quando passa davanti alla moschee la infastidiscono. Fanno così anche con mia figlia di dieci anni. Che cosa le dicono? Volgarità irripetibili. E pensare che vent’anni fa questa era la zona più bella di Roma». Forse esagera, ma si vede che è legato al suo quartiere. Gli domandiamo se si senta razzista. «No, mi ricordo bene quando a Ginevra trovai un cartello con su scritto vietato l’ingresso ai cani e agli italiani. Io e altri campioni di arti marziali siamo scesi e gli abbiamo distrutto il locale. Qui chiediamo solo rispetto». Del comitato fa parte anche una signora distinta. Si chiama Daniela e ha un negozio di preziosa oggettistica, merce un po’ fuori target per queste vie: «Gli italiani stanno scappando e i bengalesi non comprano i miei prodotti. E il valore del mio appartamento, ricco di tessuti preziosi e boiserie, è crollato. Vuole sapere perché? Glielo mostro». La donna ci conduce sulla via Casilina sin sotto il palazzo dove vive: in terra spazzatura, intorno uomini buttati sui marciapiedi. «Quando torno a casa la sera, devo stare al telefono con mio figlio sino a quando non infilo la chiave nel portone». Il negozio sotto casa sua, un verduriere, sprigiona un olezzo di marcio: «È di un egiziano. Ma non si può dire che c’è puzza, se no mi danno della razzista». La donna lamenta il muro invisibile che separa la comunità italiana e quelle straniere, in particolare quella bengalese: «Noi li invitiamo alle nostre riunioni, ma loro non vengono».
Poco distante sorge un altro centro culturale islamico, il “Masjeed-e-Rome”. Si tratta di un’importante scuola coranica. Qui studiano il libro sacro di Maometto 150 bambini tra i 5 e i 15 anni. Sono tutti bengalesi a parte 2-3 pakistani. Uno degli insegnanti ci indica fiero Alpona e Colpona, due bimbe di 6 e 7 anni: «Sanno a memoria tutte le sure del Corano, mentre il fratello Abdul Hakim, 15 anni, conosce l’intero libro». Le piccole, con i visetti avvolti nei veli (hijab) annuiscono soddisfatte. Dentro, seduti a terra di fronte a piccoli banchi, decine di bambini ascoltano un compagno leggere a voce alta, per poi ripetere in coro. Il nome di Allah suona forte nello stanzone dalle pareti sporche e scrostate. Riflettiamo sui severi standard che devono rispettare i nostri asili e abbiamo la sensazione di trovarci in un altro Continente. Il direttore Mizanur Rahman, 51 anni e una lunga barba brizzolata, ci accoglie con gentilezza. Dice di lavorare in un’agenzia di viaggi e di fare l’imam. Sul tavolo ha il Corano, come tutti i ragazzini più grandi. I piccoli hanno dei libriccini con una delle 30 parti del sacro libro. La sala è mal illuminata e polverosa. I tappeti sudici e sdruciti. I bambini allegri e colorati. È difficile credere di essere a Roma. «Mentre i cristiani vengono uccisi in tutto l’islam e nonostante Roma abbia la più grande moschea d’Europa, la sinistra ospita gli islamici a pregare in un’ex aula consiliare» chiosa Santori. Il risultato è surreale: una madrasa e una moschea sotto il volto pensieroso di Napolitano. Il califfo al-Baghdadi ha annunciato di voler arrivare a Roma con le sue truppe di tagliagole e stupratori. Dovesse farcela, chissà se si ricorderà del beau geste del presidente del V Municipio. «A buon rendere» avrà pensato Palmieri, accarezzandosi il collo.