Maurizio Porro, Corriere della Sera 1/9/2014, 1 settembre 2014
Al più radicato razzismo culturale fa parte la convinzione che certi generi di film siano maschili e altri femminili: chi ha detto che una donna non può dirigere un bel film di guerra? Nessuno
Al più radicato razzismo culturale fa parte la convinzione che certi generi di film siano maschili e altri femminili: chi ha detto che una donna non può dirigere un bel film di guerra? Nessuno. Infatti nel 2008 The hurt locker , di Kathryn Bigelow, clamoroso flop ai botteghini, non solo italiani, fu un fulminante reportage su un sergente americano che a Bagdad deve disinnescare gli ordigni non esplosi, come nei Recuperanti di Olmi, affrontando i rischi di pericolo della vita sua e degli altri, specie di un sergente che deve guardargli le spalle: il ritorno a casa lo riporta tra altre paure nella società pacifica e omologata dei supermercati. Purtroppo esiste anche la astinenza dal furore della guerra che diventa una specie di droga e di assuefazione, come sapeva Kirk Douglas nei suoi Orizzonti di gloria . Hurt Locker significa alla lettera la cassetta del dolore, ed è uno slang militaresco per indicare qualcosa di molto pericoloso. La Bigelow lavora col compagno Mark Boal, giornalista «embedded», cioè del tutto complice e partecipe, nella guerra del Golfo, che aveva scritto Nella valle di Elah con Tommy Lee Jones e con cui poi scriverà l’allucinante Zero Dark Thirty . La regista controlla l’adrenalina tipica dell’azione di questi film, scompone il racconto come in episodi, cercando l’essenziale e quasi l’astratto pur su un panorama di desolazione morale e materiale. Nonostante questo furono Oscar — quattro — e così la Bigelow batté l’ex marito, il James Cameron di Avatar : film, regìa (il primo vinto da una donna), montaggio e montaggio sonoro, qualità classiche del racconto a orologeria di guerra. Nel cast ci sono anche nomi noti come Ralph Fiennes e Guy Pearce, Jeremy Renner e David Morse ma la partita si gioca tutta nello sguardo dell’autrice che non esprime verità assolute o etiche sulle battaglie, non induce nella tentazione di fare la morale, se mai soggiace a un certo fascino dell’eroismo comandato, raccontando la «normalità» di un soldato americano spedito a Bagdad laggiù nel 2004. Alcune volte si pensa a qualche debito di riconoscenza verso il nostro neorealismo (l’episodio del simpatico ragazzino iracheno che si sa farà una pessima fine) ma è quando il racconto si fa più patetico.