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 2014  settembre 01 Lunedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

PISA
NON fugge,
non corre per lasciarsi alle spalle tutto. Anzi, al contrario, usa la strada come contenitore: e dentro ci mette la vita. Compagna, due figli, due cani, laurea in ingegneria e dottorato in automazione robotica, atletica. Daniele Meucci, 29 anni, campione europeo di maratona, è un metronomo dell’esistenza. Riesce ad andare a tempo con tutto. «Basta organizzarsi» dice. E’ uno dei rari atleti (e uomini) multitasking. Viene dalla pista, dal fondo, dove ha vinto medaglie. Facile dire: se studia i robot, è perché lo sarà anche lui. Quest’anno si è dimostrato capace di sentire anche la strada. Perché come dice Gelindo Bordin nel bel libro «Mi chiamavano Professor Fatica » di Claudio Rinaldi (con Luciano Gigliotti), nella maratona «è fondamentale sapersi ascoltare ».
Per cui niente orologio al polso.
«No, non mi serve. Magnani, il mio allenatore, a Zurigo ha insistito per mettermelo. L’ho guardato solo una volta, a metà gara. Per questo non uso nemmeno le cuffiette per la musica. Ho bisogno di sentirmi».
Come si fa: a studiare, a correre, a fare il marito e il papà?
«Non lo sento come un sacrificio. Lo faccio per volontà mia. Di cosa dovrei lamentarmi: dei 60 esami universitari dati in cinque anni, dei 12 allenamenti e dei 180 chilometri corsi a settimana? Imparassero i calciatori, che si lamentano dello stress. Provassero per un anno, un anno solo, ad allenarsi come noi dell’atletica o del nuoto. Io a fine corsa
spesso non sono nemmeno in grado di parlare. E dopo il titolo europeo sono tornato a fare la vita di sempre, nella mia casina a Cascina, fuori Pisa. Loro dopo la brutta figura ai mondiali, sono tornati alle cifre milionarie di sempre ».
Fa polemica?
«No. Accetto l’ingiustizia. Le leggi del mercato.
Sono stato un mese ad allenarmi in Kenya, nel gruppo di Rosa, con Claudio Berardelli. I corridori africani, che ammiro per lo stile fluido, mi hanno fatto tenerezza. Non hanno niente e vivono di niente.
Vanno
scalzi, le prime scarpe le hanno a 18-20 anni. Lì mi sono divertito, c’era solo l’essenziale: il cielo, la natura, la strada. Ti rilassi. Spesso niente elettricità e niente acqua. Mi ha fatto bene, quando sono tornato ho apprezzato tutto: dalla tv alla doccia calda».
La sua quotidianità?
«Mi alzo alle 6 e vado fuori in campagna a correre, quasi sempre da solo. A volte mi segue Giada,
la mia compagna in bicicletta. Torno a casa a do una mano per i lavori, passo l’aspirapolvere, taglio l’erba, gioco con i bimbi, Dario, due anni e mezzo, Noemi, undici mesi, studio, cucino la carne, perché a me piace al sangue, mi riposo, mi rialleno, alle 10 vado a letto. Niente tv, seguo solo i tg. D’inverno è più dura, per il buio, il freddo, la pioggia. E perché al campo scuola di Pisa il
custode che se ne deve andare alle otto di sera, già alle 7.45 spegne le luci, e così devo proseguire al buio e spesso si fa vivo anche mezz’ora prima, lamentandosi: quand’è che vai a fare la doccia?
».
L’Italia non aiuta lo sport.
«Non l’altro sport. Bisogna combattere contro le strutture. Nessuno chiede privilegi, ma solo un equo trattamento. Io quan-
do andavo a dare gli esami all’università nemmeno dicevo che ero in nazionale, e che gareggiavo, i miei compagni mi hanno riconosciuto in tv. Nei supermercati ci vado e vedo le facce dei pensionati che dopo una vita di lavoro sono lì davanti alle fettine di carne a fare i conti mentre il calcio sbandiera come un trionfo i 4 milioni di euro che andranno al nuovo ct Conte. Con la crisi che
c’è mi sembra un gesto inopportuno, uno schiaffo indecente. Va bene, è il mercato, e io sono logico, ma una logica non la trovo».
C’è un tassello che le sfugge?
«Può darsi. Noi Meucci siamo precisini, è una nostra caratteristica. Mio bisnonno smontava la Vespa, metteva i pezzi in un secchio, e la rimontava. Io sono il primo laureato della famiglia. Mio padre è elettricista e ha un’azienda dove mamma è segretaria, mia sorella lavora in una catena di elettronica. Mi va bene che nella vita e nello sport nessuno ti regali niente, ma l’ingiustizia mi lascia sempre perplesso. E dire che giocavo a calcio, anche bene, ma ora del pallone non ne voglio più sapere. Preferisco occuparmi dei robot marini, tipo quelli che hanno lavorato sotto la Concordia, ma autonomi, non filoguidati».
Ha vinto l’oro dieci anni dopo Baldini.
«Ma il suo era olimpico. Era destino: i primi Giochi che ho visto in tv sono stati quelli di Atene 2004, un anno prima avevo iniziato con l’atletica, mi piaceva Bekele, etiope, campione dei 10 mila metri, specialità che io tra l’altro corro e continuerò a correre. Amo la pista, quel modo di gareggiare. Mi attraeva anche Bordin, quello spasmo che aveva sul viso, quella tensione che metteva nella corsa, anche se io diversamente da lui non ho mai fumato né esagerato con il vino ».
Cosa farà in futuro?
«L’ingegnere. Perché lo sport passa, e la vita resta. E le medaglie da sole non servono, se non hai studiato. Questo vorrei dire ad un mio avversario, l’americano Galen Rupp, un po’ troppo montato, mentre invece Mo Farah, che ora ha avuto due gemelle, con me è sempre affettuoso ».
Si arrabbia se la chiamano l’africano d’Italia?
«Sì. Stimo la corsa elastica e naturale degli africani. Adoro la loro istintività e anche Vasco Rossi, che con me non c’entra niente. E’ un bel complimento, ma non lo merito, anche se ho divorziato dal mio ex allenatore perché voleva che la corsa diventasse un lavoro. Per me resta un divertimento, ho iniziato grazie a Massimo Rosellini, che ci portava a gareggiare alla sagra del prosciutto, lì ho conosciuto Giada. A volte nello sguardo della gente vedo un po’ di compatimento nei miei confronti. Tranquilli: lo studio aiuta lo sport e viceversa. Corro la maratona, non vado sul patibolo ».