Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 01 Lunedì calendario

VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON
«ROSA
era stanca...» canta la ballata di Rosa Parks, la sartina eroica che rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus di Montgomery, in Alabama, e con quel gesto sollevò il coperchio sul pentolone fetido della segregazione razziale in America. Ma non è vero. Rosa non era affatto più stanca del solito quel primo dicembre del 1955, come lei stessa avrebbe poi detto. Rosa non era una donna qualsiasi, ma era il coraggioso, cosciente, pianificato terminale di una rivolta organizzata che nel Sud aveva cercato invano la scintilla che accendesse il fuoco e che trovò in lei la persona disposta a
esserlo.
Nella genesi e nella permanenza del conflitto in bianco e nero che in agosto ha avuto a Ferguson, nel Missouri, la propria nuova, ma certamente non ultima, esplosione, miti, leggende, realtà, spiegazioni, odi si accavallano e si torcono lasciandoci con domande che sfidano la ragione. Come è possibile che nel 2014, sotto il segno del primo presidente con sangue anche africano, americani bianchi del Midwest, neppure nel solito profondo Sud delle Calde Notti, si schierino a favore di un poliziotto che abbatte a sangue freddo un teenager in mezzo a una strada soltanto perché di pelle scura? Perché, in una nazione nella quale il Censimento riconosce sei gruppi etnici e razziali distinti e un settimo gruppo «misto» sia ancora e sempre the black man , l’uomo nero, a concentrare su di sé l’odio e la violenza dei «non neri»?
La parola passepartout che viene calata in questi casi per spiegare tutto — razzismo — non spiega nulla, certamente non le origini della tragedia senza fine. Il «razzismo», come sentimento prima e ideologia poi della superiorità di una razza umana su un’altra non nasce neppure in America, ma nella Germania dell’800. La schiavitù, l’uso di altri esseri umani come animali da lavoro e come merce di scambio, certamente non comincia nei campi di mais e poi di cotone degli Stati del Sud. E il linciaggio del «diverso» conosce precedenti tragicamente illustri nei «pogrom» degli ebrei nell’Europa orientale.
L’evoluzione del rapporto fra bianchi e neri nel Nuovo Mondo, dai primi schiavi portati a forza dall’Africa Occidentale dopo essere
stati venduti da altre tribù africane ai mercanti inglesi di carne umana fino a Ferguson, muove da una radice economica, dunque materialista, trascinando con sé alibi antropologici, etici, religiosi, pseudoscientifici (come spiega il signore della piantagione nel «Django» di Tarantino usando il teschio di un «negro») usati per razionalizzare lo sfruttamento. Se sia stata l’economia a produrre il razzismo, o il razzismo ad alimentare l’economia è spesso un dilemma irrisolvibile, da «uovo o gallina».
La forza della realtà, il biso-
gno di enorme manodopera a bassissimo costo, si alimenta certamente di quello che lo storico George Fredrickson di Stanford ha chiamato «il Potere di un illusione», cioè la superiorità, e quindi il diritto di sottomettere altri essere inferiori. Ci fu (e segretamente ancora c’è) chi in America si appellava alla Bibbia, alla maledizione divina contro Cam, il figlio irrispettoso di Noè ubriaco, e ai suoi discendenti, condannati a essere «servi dei servi». La autorità religiose nelle colonie americane del ‘600 benedicevano il trattamento bestiale dei primi africani portati in Virginia perché «pagani». Ma di fronte alle crescenti conversioni dei pagani al Vero Dio, nel 1667 l’assemblea della Virginia si affrettò a precisare che, seppur cristianizzati, gli schiavi africani restavano schiavi. I padri fondatori avevano capito che è più facile cambiare Dio che pelle.
Anche a coloro che scrissero che «tutti gli uomini sono creati uguali» parve ovvio che i neri non fossero compresi nella promessa, essendo, loro, «non uomini ». Da questo, dal peccato originale della prima, vera democrazia moderna che non riconobbe l’umanità di uomini e donne al proprio fianco nel lavoro quotidiano, scorre la maledizione carsica che periodicamente riaffiora, nella segregazione imposta nel Sud per annullare di fatto l’emancipazione ottenuta di diritto dopo la Guerra Civile, nell’assassinio di Martin Luther King, nelle bombe del KKK nelle chiese dell’Alabama che facevano strage di bambine, nel «racial profiling», nel sospetto preventivo contro ogni persona di colore considerata, come a Ferguson, naturalmente criminale per il proprio aspetto.
Il cammino per la piena cittadinanza rimane una lunga processione di palliativi. Neppure la evidenza che mostra come la marginalizzazione sociale ed economica sia la matrice del crimine «in nero» mentre le nuove classi medie cresciute grazie alla lenta desegregazione hanno gli stessi, se non minori, indici di criminalità di altri, basta a cancellare il peccato originale. Che forse si riassume in una semplice verità trascurata: fra tutti i gruppi etnici, le razze, le tribù che hanno popolato il Continente americano a cominciare dai migranti venuti dall’Asia 10 mila anni or sono, gli africani, furono i soli ad esserci portati in catene e contro la loro volontà. Non immigrati, ma deportati, per permettere le fortune e la elegante democrazia dell’uomo bianco che ora li odia.