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 2014  agosto 31 Domenica calendario

RUGGERO SAVINIO: «IO, "FIGLIO DI" E "NIPOTE DI" HO EREDITATO DA LORO LE OSSESSIONI»

La verità ha sempre qualcosa di impassibile. Un po’ come la grande arte. Dove mi trovo, nell’ampia casa di Ruggero Savinio, in un quartiere popolare di Roma (non distante da piazza Vittorio) penso, istintivamente, che ci voglia molto coraggio ad affrontare la verità di un passato familiare segnato dalla presenza di due geni. Due fratelli che hanno a loro modo segnato una parte non trascurabile del Novecento europeo: Andrea e Giorgio De Chirico. Per distinguersi Andrea prese il nome di Alberto Savinio: «Non si sa bene come nacque Savinio. Ho conservato il cognome per una continuità con mio padre e con le sue storie», dice Ruggero Savinio. Professione — se tale si può chiamare — artista. Nei suoi lavori (una bellissima mostra fu fatta, un paio di anni fa, alla Galleria nazionale d’arte moderna a Roma e una se ne annuncia per dicembre al Forte Malatesta di Ascoli) vedo soprattutto serpeggiare la malinconia, quasi il contrappasso a quell’eccesso di furia creativa rappresentato dai due fratelli: “I Dioscuri”, come a un certo punto furono definiti.
È vero che non si amarono particolarmente?
«Ebbero un rapporto di grande stima. Ma furono due personalità distanti. Due caratteri che da un certo momento in poi hanno stentato a comunicare. C’era una forma di ammirazione reciproca che le parole renderebbero equivoca, banale, ovvia. Più che per comprendersi e per amarsi erano fatti per sopportare in silenzio il peso della loro grandezza».
E lei, intendo dire lei che decide di scendere sullo stesso campo di gioco, dedicandosi alla pittura, non ha avvertito il peso di questa decisione?
«Mi chiede se sia stata una scelta azzardata?»
Beh, un figlio, un erede, può restarne travolto.
«La situazione fu paradossale: da un lato c’era la necessità istintiva di andare dove desideravo. Dall’altro, la consapevolezza che avrei potuto farmi male. È il motivo per cui chi vede i miei lavori non può non notare la distanza da quelli di mio zio e di mio padre».
Che idea ha della pittura?
«Ho sempre fatto una pittura figurativa. I riferimenti non sono molti. Munch, Böcklin, Bacon. Poi, c’è una sponda americana, di artisti che hanno lavorato fuori dai canoni correnti. Un altro pittore che mi ha interessato è Hans von Marées».
Un artista tedesco dell’800.
«Con una storia interessante. Visse a lungo in Italia: prima a Firenze e poi a Roma, dove morì. Scrivendo a un amico pittore gli ricordava che l’immagine non è l’inizio dell’opera bensì il suo traguardo finale. Ne sono convinto anch’io: all’immagine l’artista deve arrivare».
L’immagine si scopre, non si impone?
«È un processo e questo lo si intuisce nei quadri di von Marées. A tratti i suoi quadri mi ricordano Sironi. Una pittura a volte estrema che può dare perfino fastidio».
A parte l’immagine cosa le interessa della pittura?
«La fisicità. Una componente che negli ultimi decenni è stata sovrastata dall’aspetto concettuale».
Cosa intende per “fisicità”?
«Il nostro coinvolgimento nella materia dell’opera. Mi emoziona Tiziano, ormai vecchio, che lascia le impronte delle dita sui suoi quadri. Mi sono formato in un’epoca in cui queste cose venivano anche teorizzate. Penso a Merleau- Ponty quando dice che l’uomo e il mondo sono fatti della stessa carne».
Lei è laureato in lettere?
«Diciamo che ho studiato lettere e filosofia a Roma, negli anni Cinquanta. C’erano come professori: Sapegno, Chabod, Ungaretti, il terribile Paratore. Avrei dovuto laurearmi con Giovanni Macchia con una tesi sulla critica d’arte tra Baudelaire e Fromentin. L’anno prima, credo fosse il 1955, Macchia aveva tenuto un bellissimo corso sul poeta francese. Gli chiesi la tesi e lui, che tra l’altro era amico dei miei, fu molto incoraggiante. Ma l’anno dopo, complice una certa crisi esistenziale, presi la decisione di andarmene a Parigi. Una prima volta nel 1957 e poi, dal 1959, per un lungo periodo».
Nella scelta c’entra il fatto che anche suo padre neanche ventenne se ne andò a Parigi?
«È difficile da spiegare. Per me fu un gesto liberatorio. Un modo per uscire da certi obblighi familiari. Mio padre era morto da cinque anni. Parigi la conoscevo attraverso i libri che avevo letto. E quando arrivai lì mi resi conto che c’erano ancora quasi tutti i personaggi che avevano contribuito al suo mito».
Cosa faceva?
«Non avevo precisamente degli scopi. Vivevo in un alberghetto nel Quartiere Latino, dipingevo e andavo spesso ad ascoltare le lezioni alla Sorbona. All’inizio senza sapere chi fossero gli insegnanti. Poi scoprii che uno era Merlau- Ponty, un altro Benveniste. Ricordo una lezione su Leonardo tenuta da André Chastel. Dopo un paio d’anni tornai a Roma».
Si ha l’impressione che Roma le abbia dato più sofferenze che gioie.
«All’inizio degli anni Sessanta la città era tumultuosa, stravagante, mondanamente vitale e intellettualmente eccitante. Il guaio è che tutte quelle cose io le avevo vissute nella mia storia familiare».
Storia dalla quale avrebbe voluto distaccarsi?
«Diciamo emanciparmi. Mi rendevo conto che la mia storia familiare faceva parte della storia italiana. Non era facile staccarsene e Roma non mi sembrava allora la città giusta per lasciar maturare tutto questo. Tanto è vero che la mia prima mostra nel 1962 la realizzai a Milano. Fu Ungaretti a presentarla».
Dal punto di vista artistico Roma stava diventando molto importante.».
«A 13 anni mio padre mi spedì nello studio dello zio a imparare il mestiere. È un imprinting che non potrei cancellare ».
«Per anni andavo il pomeriggio nello studio di de Chirico. Imparavo a mescolare i colori, apprendevo le tecniche, e facevo copie dai pittori antichi. Mio padre era molto incoraggiante. Lo zio un po’ meno».
Cosa pensa della sua pittura?
«Era fuori dal tempo. Intendeva ridare alla pittura lo splendore perso con la modernità. Ero affascinato dal modo in cui lavorava. I suoi gesti mi ricordavano quelli di un alchimista».
Si è fatta un’opinione dei “falsi de Chirico” cui, a quanto pare, il maestro contribuì?
«De Chirico ha dipinto fino a novant’anni. E a quell’età non si ha sempre la capacità di vigilare sulla propria produzione. Qualcosa di analogo accadde con De Pisis. Nella mania citazionista e replicante c’è perfino chi vorrebbe dare una patente postmoderna allo zio. Non so se gli avrebbe fatto piacere».
Era diverso da suo padre?
«Le personalità erano diverse. Più monumentale, perfino nel modo di camminare, ed egocentrica quella dello zio. Defilata e ironica quella di mio padre. Arcangeli, che fu allievo di Longhi, li definì una generazione di superuomini. Alla quale apparteneva anche Morandi. Un tratto che avevano in comune era l’accento veneto».
«Sì, potrà sembrare strano. Ma i greci che parlano italiano lo fanno con un’inflessione veneta».
Erano nati ad Atene.
«Mio padre. Mentre de Chirico era nato a Volos. Qui il nonno Evaristo, ingegnere, aveva un’impresa ferroviaria. Costruì la ferrovia che unì Atene alla Tessaglia. E quando morì la nonna si trasferì con i due figli a Monaco».
Che anno era?
«Credo fosse il 1906. Il nonno era morto l’anno prima. I due fratelli si iscrissero all’Accademia reale delle belle arti che fu soprattutto per lo zio Giorgio molto importante. Mio padre era più inquieto, versatile. Aveva studiato musica ad Atene con Max Reger. Era interessato a dipingere ma anche a scrivere. Tanto è vero, come si accennava, che decise di andare a Parigi negli anni Dieci dove incontrò Apollinaire. Poi scrisse una lettera alla madre e al fratello in cui raccontava che quella era la città dell’arte e delle opportunità e li invitò a raggiungerlo».
È straordinaria la figura di sua nonna che si insedia nel cuore dell’Europa.
«Si chiamava Gemma Corvetto ed era di Genova. Straordinaria, è vero. Seguì con fede e determinazione la vocazione dei figli».
A proposito di donne si dice che non fu particolarmente buono il rapporto tra suo padre e la seconda moglie di de Chirico.
«Si è anche detto che la zia Isa odiasse mio padre. Ma non è vero. Era una donna dura, molto attenta al patrimonio e a tutto quello che concerneva l’attività del marito. Ma la ricordo come una donna gentile. Molto diversa, questo sì, dalla prima moglie di de Chirico».
Chi era?
«Una figura affascinante: ebrea russa sposata in prime nozze a un ballerino tedesco. Si chiamava Raisa Gurevitch. Si conobbero alla rappresentazione teatrale di un’opera per la quale mio padre aveva scritto la musica: La morte di Niobe . Raisa danzava e lo zio, che assisteva alla prima, se ne invaghì. Per un certo periodo divenne la sua modella e poi alla metà degli anni Venti si sposarono».
Quanto durò il loro rapporto?
«In tutto una decina di anni, trascorsi prevalentemente a Parigi. Poi lo zio incontrò Isabella Far e se ne innamorò. Si lasciò con Raisa, che nel frattempo aveva abbandonato la danza per dedicarsi all’archeologia, e sposò Isa».
Di Raisa Gurevitch viene fuori un ritratto molto affascinante.
«Apparteneva a quella ristretta schiera di donne che nel primo Novecento agirono con estrema libertà: sia intellettuale che nel costume. Sposò, in terze nozze, un grande archeologo, Guido Calza e contribuì agli scavi di Ostia antica. La ricordo come una donna divertente. Ormai vecchia e anche povera, non aveva perso la sua capacità seduttiva. Un giorno a pranzo, non ricordo perché, il discorso finì su Kerenskij, che era stato a capo del governo provvisorio in Russia prima di Lenin. E io chiesi a Raisa, che ne parlava come se lo avesse visto il giorno prima, ma non è morto? “Niente affatto rispose. Vive a New York e ci sentiamo spesso. Con lui ebbi una piccola e intensa storia d’amore”. Era una donna sorprendente».
Sempre a proposito di donne anche sua madre era stata attrice.
«Maria Morino, insieme alla sorella, partecipò all’ultima tournée della Duse, che morì proprio quell’anno, era il 1924, a Pittsburgh. Con mio padre si erano conosciuti a teatro. Sempre in quella famosa opera, La morte di Niobe.
Era il 1925. Fu un amore fulmineo. Si sposarono nel ‘26. La mamma rinunciò al teatro per dedicarsi alla famiglia».
Cosa ha ereditato dalla sua famiglia?
«L’amore per l’arte. Aggiungerei l’ossessione».
Un’ossessione che si traduce in una forma di malinconia: la predilezione per le “ombre” per le “rovine”, per una nostalgica visione di un’età dell’oro.
«Già, le ombre. Lo zio diceva: scurisci, scurisci, c’è sempre tempo per schiarire. È il tratto saturnino che mi ha spinto verso l’oscurità e il disfarsi della materia. Solo ciò che muore può reclamare di essere stato vivo, di avere avuto una storia e un luogo, da cui nascere. E se mi volto indietro mi penso come quei “nati sotto Saturno” che nella lieve malinconia e infelicità si sono dedicati, anima e corpo, al farsi dell’immagine. Per abitarla ed esserne abitati».