Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 31 Domenica calendario

MARIO SERENELLINI

PARIGI
LA SUA INFANZIA
è stata una folle corsa, come l’autobus in fuga dalla minaccia d’esplosione in Speed, il film che vent’anni fa lo rese definitivamente popolare: un viavai a perdifiato da un angolo all’altro del pianeta e cambi choc non solo d’abitazione ma d’equilibri domestici, con un “padre” ogni volta diverso. Nato nel 1964 a Beirut da madre britannica e padre sino-hawayano, Keanu Reeves nei primi anni di vita è stato sballottato tra Libano, Australia, America fino a stabilizzarsi a sette anni, per una briciola di calendario, a Toronto, con la madre, divorziata da quando lui aveva tre anni e da allora in totale turbinio di nuovi mariti: «Vi abbiamo vissuto fino al trasloco a Hollywood dove ancora ragazzo ho cominciato a fare l’attore. Intanto, mia madre era diventata costumista e io trascorrevo ore e ore negli studi di registrazione. Mi ricordo il folclore delle regine del country rock, Dolly Parton,
Emmylou Harris e di Alice Cooper, alle prese con Welcome to My Nightmare: mi ero abituato alle stranezze, tutto mi appariva normale».
Reeves, barba e capelli nerissimi, elastico e leggero nell’abbinamento tshirt e giacca Armani, compirà cinquant’anni il due settembre («Crisi di mezza età? Quale età?»). Già star a poco più di vent’anni — Point Break di Kathryn Bygelow , My Own Private Idaho di Gus Van Sant, il Dracula di Francis Ford Coppola e Il Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci — l’attore americano tenacemente abbarbicato alla nazionalità canadese, divenuto fanta- icona con la saga di Matrix, è oggi regista di Man of Tai Chi, thriller arabescato di kung-fu, e produttore di Side by Side, inchiesta sull’epocale cinetrapasso dalla pellicola al digitale dove, da inatteso cinefilo, intervista maestri del grande schermo, da Lynch a Scorsese, Lucas, Von Trier, Boyle, Cameron: «Il cinema mi affascina anche per le magie tecnologiche che lo rendono possibile. Sono
stato un bambino curioso: smontavo i giocattoli, chiedevo sempre “perché ?”. Così mi sono divertito a mettere il naso dentro macchinari e processi digitali di riprese e proiezioni. Una curiosità già estesa ai motori, altra mia passione fin da ragazzo: sono un motociclista spericolato, fan delle Norton, lamoto per eccellenza, e adesso anche costruttore dilettante di cilindrate. Sono fiero di poterle anticipare che presto l’Arch Motorcycle Company svelerà un mio prototipo».
Ospite d’onore del festival Champs-Elysées di Sophie Dulac, tra un incontro e l’altro con le platee di teen adoranti, Reeves si rilassa
sulla terrazza panoramica di Publicis Cinémas, giro d’orizzonte mozzafiato sull’intera città. Ma lui sceglie la sedia che dà le spalle a Parigi: «Preferisco l’ombra ». Parla calmo, e lento. Si gratta la gamba destra scoprendo un’ampia cicatrice ricurva: incidente in moto nel ‘96, dopo quello d’anni prima sul Topanga Canyon Boulevard, tra la Los Angeles Valley e il Pacifico, che gli ha lasciato un’altra “firma” lunga fino allo stomaco. «Il mio uncino di pirata — ironizza, andandoci sopra con l’indice — o il mio punto interrogativo. Tutti e due, forse: dipende da come lo si guarda». Tra i suoi soprassalti atletici, c’è stato anche l’hockey su ghiaccio: «Avevo cominciato molto presto, quand’ero a Toronto: giocavo in porta, non malaccio, tanto che progettavano di passarmi professionista per le Olimpiadi. Mi chiamavano “the Wall”, il muro. Ma è finita con un brutto incidente alle ginocchia, che tra l’altro m’impedisce da allora di praticare il surf. Però non tutti i sogni di ragazzo si sono infranti: mi è rimasto quello di andare nello Spazio. Non dispero un giorno di realizzarlo». E la musica ? «È storia parallela al cinema. A ventitré anni mi ero comprato una chitarra sul Sunset Boulevard. Volevo imparare. M’incantava Peter Hook, bassista dei Joy Division, specie in pezzi come Love Will Tear Us Apart, Ceremony, Atmosphere. Qualche tempo dopo scopro un vicino con la maglietta da hockey. Anche lui è attore, Robert Mailhouse. Siamo diventati fratelli di hockey e di musica». Dopo i primi album, Our Little Visionary del ‘96 e il successivo Happy Ending, che posto ha la musica nelle sue giornate? «Casa mia è una sauna sonora: Archers of Loaf, Built to Spill, Hüsker Dü, Elvis Costello, Dean Martin, Bobby Darin, Dinosaur Jr, Stravinsky, Sonic Youth…». È rimasta solo un hobby ? «Sono stato bassista di band come i Dogstar o i Becky e ho contribuito al repertorio con le mie “ditties”, canzonette. Abbiamo inciso dischi. Ce la spassiamo. Questo è hobby ? Non so. Ci facciamo pagare: questo è professionismo ? Okay, diciamo che è un hobby professionistico
».
Torniamo all’altro “hobby professionistico”, il cinema: come mai ha sempre snobbato uno dei suoi maggiori successi, Speed, e ha rifiutato dieci milioni di dollari per Speed 2, preferendo raggiungere Al Pacino ne L’avvocato del diavolo ? Con Reeves, talvolta, dopo una domanda si aspetta. Anche per settantadue secondi. Questa è una di quelle volte. Lui riflette («Voglio trovare la risposta precisa»). Nel frattempo, nello Spazio, i pianeti si scontrano, le stelle esplodono in supernova, sulla Terra sparisce la foresta amazzonica e, lì sotto, l’Arc de Triomphe fa da ombelico a un’immobile giostra d’auto come in un film di Tati. Ripensiamo con pena solidale ai troppi strappi di un’aurea carriera — il padre in prigione per traffico d’eroina, la morte dell’amico River Phoenix, della figlia appena nata, nel ‘99 e, poco dopo, della giovane compagna Jennifer Syme — smarrita poi tra flirt da rotocalco: Winona Ryder, Cameron Diaz, Charlize Theron, Parker Posey… Ma ecco: « Speed! Pensi che avevo detto no anche la prima volta, minimizzando: una bomba su un bus, e allora? E anche mentre lo interpretavo avevo la testa altrove. Pensavo all’ Amleto. Ne conosco a memoria sonetti e soliloqui, in viaggio ne ho sempre una copia con me, mi piace recitarne i passaggi a voce alta quando sono in camera da solo». Dopo gli Shakespeare giovanili Reeves ha interpretato Tanto rumore per nulla di Kenneth Branagh e, nel ‘95, in teatro a Winnipeg, priorio Amleto. «Ormai ho capito che per quanto lontano si possa andare, Amleto ci segue e ci giudica. Meraviglioso e terrificante
». Ha a che fare anche con le sue vicende familiari ? Madre risposata, padre fantasma… «Vero. Quel che ho scoperto nel recitare Amleto è che si è fatto carico per me di tutta la rabbia che sentivo nei confronti di mia madre. Ne sono stato sorpreso: era già tutto lì dentro e non me ne ero mai accorto». E come si passa da Shakespeare ai Wachowski di Matrix? «Mi è piaciuto subito il personaggio: e l’interrogativo “Quale verità ?”. E poi sono da sempre un cultore di graphic novels (di Frank Miller in particolare). Senza parlare delle arti marziali! I film di kung-fu io me li studio. Mi divertono troppo i combattimenti finti». Nella sua fitta filmografia c’è anche un po’ d’Italia: «Bertolucci è il migliore di tutti, il regista da cui ho imparato di più come attore e, spero, adesso, come regista. Con Il Piccolo Buddha mi ha fatto per la prima volta entrare nella spiritualità dell’Oriente, percepire il divino che è nell’uomo». E Monica Bellucci: il divino che è nella donna? «Una presenza unica, fantastica. Purtroppo sacrificata in mini-ruoli come in The Private Lives of Pippa Lee di Rebecca Miller e nel Dracula di
Coppola».
Negli Usa lo aspettano due film, il thriller Knock Knock di Eli Roth e The Whole Truth di Courtney Love, sulla fine misteriosa di Kurt Cobain. Poi? Si lancerà di nuovo sulle due ruote? «Inforco la moto appena posso, in ogni scampolo di tempo libero, quando ne ho abbastanza del cinema, della chitarra e persino di Amleto . Di giorno, di notte, prendo e, in un ruggito, via dalla città. Assaggi di catarsi, tutto alle spalle». Che piacere prova nell’andare troppo forte? «Una liberazione ». Da che cosa? «Dall’andare troppo piano?».