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 2014  agosto 31 Domenica calendario

SONO UNO SCIENZIATO DEI CARTOON

Mettiamola così: senza di lui il pesciolino Nemo, Saetta McQueen o i giocattoli di Toy Story sarebbero rimasti solo delle bellissime idee. Ed Catmull ha passato una vita intera a studiare come realizzarle. Ha fondato la Pixar con Steve Jobs e John Lasseter, ha sviluppato RenderMan, il software utilizzato nei film dei creatori de Gli Incredibili e di Up. E ora ha scritto tutta questa storia in un libro, Verso la creatività e oltre ( Sperling&Kupfer), che è insieme un manuale su come gestire una fabbrica dell’immaginario, una miniera di aneddoti per gli appassionati, e anche un modo per capire perché sulla doppia poltrona di presidente della Walt Disney Animation e della Pixar sieda un signore laureato in fisica e informatica. «I miei due idoli da bambino erano Walt Disney e Albert Einstein. Sono cresciuto negli anni Cinquanta nello Utah, quando la faccia di Disney e i suoi personaggi comparivano regolarmente sui primi televisori. E c’era questa immagine di Einstein, l’icona del genio. Da ragazzo il mio sogno era diventare un disegnatore, ma mi sono reso conto che non avrei mai raggiunto certi livelli, e così al college cominciai a studiare fisica. Può sembrare incoerente, ma per me arte e scienza hanno molto in comune: sono entrambe basate sull’osservazione».
Presto infatti avrebbe utilizzato le sue conoscenze nel cinema, incontrando George Lucas in piena era Star Wars.
«Dopo la laurea mi sono dedicato alla computer grafica, era un campo emergente. L’unica persona nell’industria cinematografica che davvero voleva puntarci, sul finire degli anni Settanta, era proprio George. Sono stato assunto nel ‘79 alla Lucasfilm, dove l’informatica era usata come un mezzo per raggiungere qualcosa di assolutamente nuovo nella storia del cinema. Avevano sviluppato un effetto di sfocatura dell’immagine che rendeva i movimenti delle astronavi
più realistici all’occhio dello spettatore».
È lì che comincia a nascere la Pixar, divisione della Lucasfilm che si occupava di computer grafica. Finché non fu acquistata da Steve Jobs, nel 1986.
«Steve nella sua vita è passato attraverso il classico “viaggio dell’eroe”, dalla caduta al trionfo. Era stato messo da parte dalla Apple quando comprò la Pixar e cominciammo a lavorare insieme. Poi tornò alla Apple da vincitore, ma mi dispiace che negli anni si sia continuato a scrivere del suo carattere difficile: pochi sanno che era profondamente cambiato. Le prime volte che lo incontrai si comportava proprio come veniva dipinto nella sua immagine pubblica, a volte negativa. Ma la sua intelligenza lo ha portato a diventare sempre più pronto al dialogo, all’ascolto e se all’inizio voleva sempre vincere, ha poi imparato cosa vuol dire essere davvero dei partner. Parte del suo successo è dovuta a questo».
Nel 1995 arriva Toy Story: il primo film di animazione interamente realizzato in computer grafica. Eravate consapevoli che stavate inventando un nuovo linguaggio?
«Non del tutto: eravamo troppo concentrati nella realizzazione del film. Sapevamo che riuscirci avrebbe cambiato l’industria dei cartoon, anche se non era chiaro quanto profondamente. Ad esempio non avrei mai
pensato che l’animazione al computer avrebbe quasi interamente soppiantato quella a mano: io amavo entrambe».
Woody il cowboy e Buzz Lightyear ebbero un grande successo. Quali sono stati i personaggi o le sequenze più difficili da realizzare?
«Se oggi andiamo a guardare le figure degli umani in Toy Story dobbiamo ammettere che non sembrano molto realistiche. All’epoca non avevamo computer abbastanza potenti o le conoscenze tecniche per farli meglio di così. E infatti decidemmo che i protagonisti della storia sarebbero stati dei giocattoli: per noi erano più facili da realizzare. Con il secondo film, A Bug’s Life (1998) affrontammo una sfida ancora più grande: creare tutta quella fitta vegetazione in cui si muovevano i personaggi. E in Alla ricerca di Nemo ( 2003) i pesci e gli effetti nell’acqua erano davvero perfetti. Ma provate a guardare le persone all’interno dello studio dentistico: non erano altrettanto efficaci. Conunque ogni errore o limite è stato utile: a un certo punto ci siamo detti, okay, adesso dobbiamo fare bene gli umani. E ci siamo concentrati su quel problema».
Il suo libro è anche una guida sulla gestione di gruppi di lavoro: il campus Pixar in California è da molti considerato un esempio: campo da calcio, volley, piscina e ogni
dipendente è incoraggiato a personalizzare la sua postazione. Crede sia un modello esportabile anche ad aziende che hanno meno a che fare con la creatività?
«Io ho un concetto di creatività molto vasto. Naturalmente so che non tutti hanno lo spazio o la possibilità di costruire un campo da calcio sotto l’ufficio, ma credo che a un dipendente che lavora duro bisogna mandare il messaggio: prenditi cura di te stesso. Alla Pixar incoraggiamo anche chi magari ha comportamenti inusuali a non limitarsi. Qui ci sono persone che fanno cose strane».
Quanto strane?
«Beh per esempio il regista di Ribelle — The Brave ( 2006), Mark Andrews, la mattina prima di iniziare il lavoro portava i ragazzi della troupe sul prato qui davanti e gli insegnava a combattere con la spada. La cosa mi divertiva molto, non so perché ma cercava sempre di coinvolgere tutti».
Lei e John Lasseter credete molto nell’importanza della ricerca sul campo.
«Fondamentale. Tanti sanno costruire una sceneggiatura per un film ma serve poi la ricerca per realizzarla in modo credibile, fresco, nuovo. Durante la lavorazione di Ratatouille ( 2007) abbiamo mandato i membri della troupe a Parigi: hanno cenato nei migliori ristoranti della città e hanno visita-
to le cucine per vedere come si lavora in quegli ambienti e poterne poi ricreare le atmosfere nel film. Certo, avrebbero potuto vedere i programmi di cucina su qualche canale tematico, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Per lo stesso motivo molti ragazzi che lavoravano a Nemo presero il brevetto da sub. E un nostro gruppo ha visitato un impianto per il trattamento delle acque di scarico a San Francisco: la sceneggiatura prevedeva che il pesciolino finisse in una fogna e avevamo bisogno di sapere se effettivamente un pesce può sopravvivere a un viaggio dal lavandino fino al mare».
Nel 2006 la Disney, che veniva da un periodo poco brillante, acquisisce la Pixar e lei e Lasseter cominciate a gestire entrambe le realtà. Oggi abbiamo di nuovo successi come Frozen. Che tipo di problemi avete dovuto risolvere?
«Parecchi. In Disney i registi non avevano il pieno controllo dei loro film. Chi gestiva lo studio era molto più concentrato sui processi di lavorazione che non sulle storie. C’erano molte persone di talento, ma non sapevano su chi puntare. Abbiamo cominciato con il riunire tutti quelli che lavoravano su storie e sceneggiature per fare in modo che si aiutassero e stimolassero a vicenda».
E alla Pixar su cosa state lavorando ora?
«Su Inside Out, uscirà l’anno prossimo, è un film ambientato all’interno della testa del protagonista. A volte siamo nel mondo esterno, ma per buona parte abbiamo a che fare con dei personaggi che rappresentano le emozioni che prova una ragazza dentro la sua testa, dalla paura alla gioia. Una sfida impegnativa, ma il materiale prodotto finora ci sta piacendo molto, sono ottimista».
Ha un personaggio o un film preferito tra quelli che avete realizzato?
«Voi vedete dei personaggi, io vedo lavoro, persone, fatica, dubbi, problemi risolti. Però se proprio devo scegliere, amo molto il discorso finale in Ratatouille, perché il pubblico rimane sinceramente sorpreso. E la cosa più bella che puoi fare è sorprendere davvero la gente». Per la cronaca, il discorso è quello di Anton Ego, severissimo critico gastronomico francese: dopo aver scoperto che a cucinare la sua deliziosa cena è stato un piccolo topo, deve ammettere che “un grande artista può celarsi in chiunque”.