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 2014  agosto 31 Domenica calendario

IO & MADIBA - Una ragazza stava facendo i tuffi nella piscina di casa, a Johannesburg, quando suo padre le annunciò preoccupato: «Hanno liberato dalla prigione il terrorista

IO & MADIBA - Una ragazza stava facendo i tuffi nella piscina di casa, a Johannesburg, quando suo padre le annunciò preoccupato: «Hanno liberato dalla prigione il terrorista. Saranno guai». Era il febbraio 1990. Il “terrorista” era Nelson Mandela. La ragazzina che faceva il bagno si chiamava Zelda la Grange. Non aveva le idee chiare sui motivi per cui quell’uomo dalla pelle nera fosse rimasto a lungo in carcere, né sul significato della sua liberazione. Sapeva solo che i blacks erano una specie inferiore, anche quelli gentili come la sua domestica — per questo in casa non lasciavano che toccasse le posate. Passò un po’ di tempo. In Sudafrica vennero, dal punto di vista dei bianchi, i previsti “guai”: finì l’apartheid. Mandela diventò il primo presidente nero nella storia del suo paese. E un bel giorno Zelda si ritrovò a fare la dattilografa proprio nell’ufficio del presidente. Aveva ventitré anni. Bianca, bionda e razzista, oltre che piuttosto carina, non pensava che fosse esattamente il lavoro per lei. Ancora meno si sarebbe aspettata di diventare la segretaria personale di Mandela. Molto più di una segretaria: praticamente nessuno, nei vent’anni successivi, ha trascorso così tanto tempo a stretto contatto con uno dei più grandi personaggi della storia contemporanea, il leader che ha vinto il premio Nobel per la pace, che ha riconciliato bianchi e neri, che è diventato un simbolo per l’Africa e per il mondo. È stata il suo aiutante di campo, portavoce, confidente, accompagnatore, sergente di ferro, perenne sostegno. La «nipote onoraria», come la definiva lui (quando non le si rivolgeva con il diminutivo di Zeldina), a cui lei rispondeva con l’appellattivo di «nonno ». Per due decenni gli è stata vicina diciotto ore al giorno, durante viaggi, riunioni, incontri con capi di governo e di stato, sovrani e principesse, artisti e vip, rinunciando ad avere una vita privata, un marito o compagno, dei figli. Sino alla fine, o meglio sin quasi alla fine, perché la litigiosa e complicata famiglia di Mandela, quando si è ammalato, l’ha messa al bando per gelosia, vietandole di vederlo e tenendola a distanza perfino al funerale. Adesso la razzista redenta ha scritto un libro di memorie, Good morning, Mr Mandela, in cui racconta il suo rapporto con Madiba, come lo chiamano tutti in Sudafrica. Si dice che nessun uomo sia grande secondo il proprio maggiordomo, ma Zelda fa un’eccezione: «Se sono cambiata io grazie a Madiba significa che tutti possono cambiare», ci dice davanti a una tazza di cappuccino in un caffè italiano di Londra, dove la Penguin, sua casa editrice, l’ha portata per pubblicizzare l’autobiografia. «La prima volta che l’ho incontrato, nell’ufficio della presidenza, non sapevo cosa aspettarmi», racconta. «Non sapevo se, vedendo questa ragazza bianca alle sue dipendenze, mi avrebbe licenziata o umiliata. La prima cosa che mi venne in mente fu: “ho mandato quest’uomo in prigione, la mia gente lo ha chiuso in galera, gli abbiamo portato via una gran parte della sua vita”. Di colpo scoppiai a piangere. E allora lui mi prese la mano tra le sue sue, cominciò a parlarmi in afrikaner (la lingua dei sudafricani bianchi, che Mandela aveva imparato in carcere, ndr), poi mi abbracciò e disse “non è necessario, non reagire così, è esagerato”. Quindi cominciò a farmi domande, dov’ero cresciuta, che lavoro facevano i miei. Tutto durò cinque minuti ma fu uno shock, come se avessi avuto una visione». Ci volle qualche mese prima che Zelda fosse promossa da anonima dattilografa a collaboratrice dello staff del presidente e infine a sua segretaria personale (al posto della nera che si vede nel film Invictus di Clint Eastwood). Impiegò almeno due anni a percorrere dentro di sé la trasformazione da razzista — «no, non per intima, ragionata convinzione, ma perché accettare l’apartheid per noi bianchi era la norma, niente di assurdo o vergognoso, era la nostra vita» — a convinta paladina del nuovo Sudafrica democratico e multirazziale. Ripensa alla decisione di Madiba di volerla con lui senza alcuna ingenuità: «Era un grande stratega. Sapeva che era importante mostrare all’interno, al popolo sudafricano, e all’esterno, al resto del mondo, che il suo Sudafrica abbracciava tutte le culture e le razze, che era un paese arcobaleno e che dunque c’erano dei bianchi anche attorno a lui». Eppure l’affetto, l’amicizia tra l’anziano presidente (all’epoca settantacinquenne) e la giovane segretaria dai capelli biondi sbocciarono genuini. «All’inizio mi sentivo colpevole, mi era stato insegnato a temere quest’uomo che ora si dimostrava con me gentile, generoso, attento. Provavo orrore per me stessa. Ma proprio Madiba mi aiutò a vincerlo, spiegandomi che è ammesso sbagliare, anche fare cose terribili, se poi si cerca di ripararle. Diceva sempre che gli uomini non sono mai del tutto buoni o del tutto cattivi, che in ognuno di noi c’è una parte di bene e di male». Era la filosofia che lo guidava anche politicamente, come la sua ex-segretaria ricorda nel libro. «Qualcuno gli rimproverava, per esempio, le sue relazioni con Gheddafi: come poteva un democratico andare d’accordo con un tiranno? Ma Mandela cercava di dimostrare rispetto per tutti, diceva che se rispetti il tuo nemico, anche la persona peggiore può tirare fuori qualcosa di buono. Di Gheddafi diceva che si era impegnato con lui a consegnare i responsabili dell’attentato di Lockerbie, a dare segnali di dialogo con l’Occidente, e lo aveva fatto. Il rispetto era servito, aveva funzionato». Le chiedo degli altri incontri a cui ha assistito, degli altri grandi della storia che ha visto da vicino. Fidel Castro? «C’era grande calore fra loro. Castro aveva appoggiato la lotta di Mandela contro l’apartheid e Madiba non lo dimenticava. Si abbracciarono come fratelli». Arafat? «Un colloquio cortese ma non calorosissimo. Da Mandela il leader palestinese si aspettava forse un sostegno incondizionato, invece Madiba gli fece anche critiche per i metodi con cui governava e con cui cercava di ottenere uno Stato». I leader israeliani? «Anche con loro ci fu una certa freddezza. Ehud Barak, l’allora primo ministro, trattava Mandela con impazienza. Probabilmente lo consi- derava troppo filo-palestinese. Ricordo che Madiba fu molto impressionato dal museo dell’Olocausto. Ma poi disse che non si potevano scaricare sui tedeschi di oggi le colpe dei loro padri o nonni. Il suo messaggio era sempre lo stesso, riconciliazione e perdono». E i presidenti americani? «George W. Bush mi fece quasi arrabbiare, Mandela era già molto anziano quando si incontrarono, parlava lentamente, ripeteva qualche frase e Bush gli faceva fretta, non lo lasciava finire, diceva “okay, okay basta, andiamo a fare la conferenza stampa”». Clinton? «Un grande amico. Si adoravano a vicenda, e si vedeva. Clinton cercava di essere sempre con lui per il suo compleanno». Obama, il primo nero alla Casa Bianca? «Si incontrarono brevemente quando Obama era ancora senatore, non ci fu tempo per un rapporto più profondo». La regina Elisabetta? «Oh, legarono moltissimo, forse si intendevano anche per la vicinanza di età, Madiba andava d’accordissimo con le persone della sua generazione, per quanto anche con i bambini, forse aveva più difficoltà con quelli di mezzo. Le posò una mano su una spalla, poi ci spiegarono che il protocollo non permette di toccare la regina, ma lei non si risentì per nulla. Madiba la coprì di complimenti, le disse che gli sembrava dimagrita, in gran forma, e a Sua Maestà fece piacere». L’ultima volta che Zelda lo ha visto, era in ospedale, Mandela ormai non era più in grado di parlare: «Ma quando ha sentito la mia voce ha aperto gli occhi e ha sorriso». Non prova rancore per i membri della sua famiglia che alla fine l’hanno allontanata? «Ho sofferto. E mi è dispiaciuto per come le autorità sudafricane hanno organizzato il funerale, Madiba avrebbe meritato di meglio. Ora però mi è passata anche la rabbia. Sono piccole cose, rispetto a quello che noi bianchi abbiamo fatto ai neri. La lezione di Madiba è che bisogna perdonare e guardare avanti». E a cosa guarda lei ora? Cosa c’è nel suo futuro senza “nonno” Mandela? «Magari vorrei un compagno, un uomo, quelli che mi cercavano finché c’era lui erano solo attirati dalla possibilità di conoscere Madiba attraverso di me. E poi voglio dei fiori, tanti fiori. Sa che le dico? Vorrei aprire un negozio di fiori». La razzista bianca diventata segretaria dell’uomo che ha sconfitto l’apartheid, un negozio di fiori e un nuovo amore: scommettiamo che questo libro diventerà un film?