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 2014  agosto 31 Domenica calendario

«PIU’ SU NON POTEVO SALIRE»

«Ora che sto invecchiando, e dopo cinquant’anni di salite, mi sta bene andare anche un po’ in discesa. Con l’età l’unica cosa che aumenta è la ricerca di un po’ di comodità». Alla vigilia dei suoi settant’anni, li compirà il prossimo 17 settembre, Reinhold Messner non sembra affatto turbato dalla prospettiva di invecchiare, sebbene la sua vita sia sempre stata consacrata alle PRIMO uomo
al mondo a scalare tutti i quattordici Ottomila, e il primo a salire sull’Everest in solitaria e senza ossigeno, l’alpinista sudtirolese, uno dei più grandi di tutti i tempi, ha realizzato tremilacinquecento imprese di cui cento prime ascensioni, oltre ad avere attraversato a piedi il Tibet, l’Antartide, la Groenlandia e i deserti del Gobi e di Taklamakan. Ora, davanti a sé, vede il rifugio dei suoi settant’anni, un nuovo punto di arrivo che lo ha spronato a fare un bilancio della propria esistenza in un libro intitolato La vita secondo me( Corbaccio): settanta capitoli, uno per ciascun valore o sensazione che la montagna gli ha insegnato o trasmesso. Ce ne parla dal suo Castel Firmiano, sopra Bolzano, dove nel cortile di uno dei sei musei dedicati alla montagna che compongono l’itinerario del Messner Mountain Museum, si è appena raccontato intorno al fuoco in una bella serata.
Sono in tanti a dirlo: lei settant’anni non li dimostra affatto.
«E io dico che questi tanti si sbagliano. È da quando ho cinque anni che scalo montagne. I miei genitori mi hanno portato per la prima volta a fare un’ascensione che ero piccolissimo. Raggiungemmo la cima del Sass Rigais nelle Odle. E avevo cinque anni quando Bonatti, a diciannove, realizzava la sua ascensione dello sperone Walker alle Grandes Jorasses o della parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey. Quello che voglio dire è che ho fatto tanto nella mia vita. I miei settant’anni me li sento tutti. La montagna è stata la mia seconda casa fin da quando ho imparato a stare in piedi. Non è stata la scuola o la chiesa a formarmi. I miei campanili sono state le torri di roccia e le cime delle montagne».
A proposito di Bonatti, qual è il segno più profondo che secondo lei ha lasciato?
«La sua prima solitaria invernale lungo una via diretta, sulla parete nord del Cervino, ha sancito la fine dell’alpinismo classico. Dopo il suo esempio la montagna ha rappresentato la possibilità di fare innumerevoli prime esperienze. E quelle esperienze hanno formato anche il mio sapere. Oggi le trasmetto agli altri».
Il suo ultimo museo sul Plan de Corones è un omaggio all’alpinismo tradizionale.
«Al mio, a quello di Bonatti, di Cassin. Sì, è un bagaglio di valori ed esperienze che si sta perdendo. Per questo ho ritenuto importante mettere in rilievo il potenziale dell’esperienza dell’ultima realtà della natura e così custodire una parte della natura selvaggia della montagna. L’avventura in alta quota presuppone ancora uno spazio libero del pericolo».
Dopo una vita tanto avventurosa ha davvero deciso di deporre le armi?
«Sono salito fin dove mi è stato possibile. Più in alto e più lontano sinceramente non potevo andare. Adesso non si tratta di non fare nulla perché ho già fatto tutto, ma di dare un senso nuovo alla mia vita nella vecchiaia».