Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 23 Sabato calendario

LA SVOLTA DI DRAGHI

Chissà quando trapelerà il contenuto dei dialoghi privati intercorsi negli ultimi giorni a Jackson Hole, località di villeggiatura nel Wyoming, tra la presidentessa della Federal Reserve Janet Yellen e l’omologo Bce Mario Draghi. Di certo si sa che dalle parti di Wall Street e Washington è sempre più forte il disappunto per le politiche di austerità propugnate dalla Germania e per l’attendismo dell’istituto di Francoforte. A ottobre la Fed metterà fine agli stimoli straordinari del Qe, ovvero gli acquisti di asset. E la Bce non sembra per niente intenzionata a prendere il testimone cominciando a comprare titoli di Stato. Ma qualcosa bisogna pur fare, visto che ormai Eurolandia è la vera palla al piede dell’economia mondiale. E così venerdì 22 agosto è arrivata la sorpresa. Draghi ha preso la parola al simposio tra le Montagne Rocciose e si è espresso in modo ben diverso dall’ultima riunione del Consiglio direttivo della Bce del 7 agosto, quando si era spinto a dire, con chiaro riferimento all’Italia, che per i Paesi dell’Eurozona è arrivato il momento di «cedere sovranità sulle riforme strutturali».
Di fronte agli altri banchieri centrali riuniti nel Wyoming ha invece affermato che nella lotta alla disoccupazione «è necessario agire su entrambi i lati dell’economia: le politiche di domanda aggregata devono essere accompagnate da politiche strutturali specifiche per ciascun Paese». Draghi ha spiegato che «senza una domanda aggregata più alta, si rischia una disoccupazione strutturale più elevata e quindi i governi che introducono riforme strutturali finirebbero per correre solo per restare fermi». Il cambiamento di tono è notevole, perché fino a ieri il numero uno della Bce, in linea con Berlino, puntava tutto sulle riforme strutturali, mentre ora ammette che senza una domanda più alta, le stesse riforme rischiano di essere vanificate. Un anatema per il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che ha disertato Jackson Hole. Ma perché preoccuparsi tanto della disoccupazione, visto che il mandato della Bce dice che l’istituto di Francoforte, a differenza della Fed, deve pensare solo all’inflazione? La risposta di Draghi è disarmante: «La coesione a lungo termine dell’Eurozona dipende dal raggiungimento in ogni Paese di un alto livello sostenibile di occupazione. E considerati gli altissimi costi di un’eventuale minaccia alla coesione dell’unione, tutti gli Stati dovrebbero avere interesse a riuscirci». In parole povere, l’alta disoccupazione mette a rischio la sopravvivenza dell’euro. Un pericolo totalmente ignorato dai falchi di Berlino, come per esempio l’ascoltatissimo consigliere della Merkel, Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo, l’istituto di ricerca che dà il nome al famoso indice di fiducia delle imprese tedesche, che propone come unica ricetta per guarire i mali dell’Italia la svalutazione interna, ovvero il taglio dei salari. Questo però porterebbe inevitabilmente alla diminuzione della domanda aggregata, che invece il Draghi versione Jackson Hole ritiene indispensabile dover aumentare. E qui il riferimento è anche alla Germania, che dovrebbe aumentare i salari tedeschi per aumentare le importazioni dagli altri Paesi europei.
Il numero uno della Bce ha inoltre dichiarato che la disoccupazione «colpisce anche le banche centrali. Infatti, anche quando non ci sono rischi per la stabilità dei prezzi, ma la disoccupazione è alta e la coesione sociale a rischio, le pressioni sulla banca centrale per rispondere invariabilmente aumentano». In questo modo Draghi ha aperto la porta a un’accelerazione del passo degli interventi straordinari. Lo scorso giugno il banchiere centrale aveva tracciato il percorso della Bce: a settembre partiranno le operazioni T-Ltro di rifinanziamento delle banche, che a fine anno ammonteranno a circa 400 miliardi di euro, a patto che queste utilizzino la liquidità per fare prestiti alle imprese e alle famiglie; poi si darà il via al riacquisto di titoli Abs, che impacchettano prestiti a famiglie e imprese. Ma si stanno ancora studiando i dettagli tecnici per rendere efficace questa misura e non è detto che si riesca ad avviarla entro fine anno. Infine, e solo per ultimo, dopo aver valutato i risultati di queste due operazioni, si potrà dare il via a un Qe in piena regola, con l’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi di Eurolandia. Tempi di valutazione che richiederanno mesi. Ma ora Draghi ha introdotto la variabile disoccupazione che mette a rischio addirittura la sopravvivenza dell’euro. E così i tempi potrebbero restringersi. Tutto dipenderà dalla resistenza opposta da Weidmann. Che rischia a questo punto di trovarsi isolato come due anni fa, quando fu l’unico esponente del consiglio direttivo a opporsi al dispiegamento dello scudo anti spread (che fino a oggi non è mai stato utilizzato). Ma il cuore del messaggio è che le politiche di austerità non possono essere applicate nella maniera tetragona richiesta da Berlino, ci vuole più flessibilità, sia pure nell’ambito delle regole attuali, dove «già esistono gli spazi di manovra necessari a una composizione delle politiche fiscali più favorevole alla crescita». Già si immaginano però i commenti stizziti degli esperti tedeschi, che probabilmente accuseranno Draghi di fare un favore all’Italia (e alla Francia).
La partita è quindi appena cominciata, ma Draghi può contare senza dubbio sul sostegno degli Stati Uniti, che nei momenti decisivi, come il salvataggio della Grecia, hanno fatto pesare le loro ragioni. Non a caso Draghi sembra aver letto con grande attenzione l’editoriale pubblicato domenica 17 dal New York Times che lo criticava apertamente perché la Bce deve decidersi a comprare titoli di Stato e altri bond come fanno tutte le altre banche centrali. Draghi infatti «ha sostenuto che i governi debbano adottare più misure pro-crescita», ma «non può ignorare le proprie responsabilità» perché «è quasi inesistente il rischio che politiche più aggressive della Bce possano provocare un’inflazione galoppante», dato che l’indice dei prezzi al consumo è ben più basso dell’obiettivo di un tasso appena al di sotto del 2%. Il New York Times ammette che «la politica monetaria da sola non sarà sufficiente a ravvivare l’economia di Eurolandia». Deve essere infatti «ripensata la politica fiscale». Perché «l’Ue, incoraggiata ancora una volta dalla Germania, ha chiesto a Francia e Italia di ridurre il deficit, attuando allo stesso tempo riforme strutturali che, per esempio, rendano più facili i licenziamenti. Ma è politicamente difficile, per non dire controproducente, per i governi fare entrambe le cose allo stesso tempo quando il tasso di disoccupazione di Eurolandia è così alto (11,5% a giugno)». Certo, Draghi non si è spinto così avanti, ma sul problema della disoccupazione è stato ancora più duro, visto che lo ha collegato al rischio di disintegrazione dell’area euro. A questo punto, inoltre, se la Germania insistesse con la linea dura, i mercati potrebbero tornare a scommettere sulla fine dell’euro, pericolo che lo stesso Draghi aveva allontanato con il suo famoso discorso di Londra del 26 luglio 2012, «all’interno del nostro mandato, la Bce è pronta a fare tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza». Oggi l’euro è messo a rischio dall’alta disoccupazione, che le rigide politiche di austerità non aiutano certo ad abbassare. E Draghi lo ha detto apertamente.
A Jackson Hole ha parlato ovviamente anche la Yellen. E anche il suo intervento era molto atteso. Da lei non sono però arrivate novità sostanziali: il rialzo dei tassi resta previsto per il giugno dell’anno prossimo, nessun anticipo, quindi. La presidentessa della Fed ha infatti lanciato un monito agli esponenti del Comitato di politica monetaria (Fomc) ansiosi di anticipare i tempi, avvertendoli che bisogna avere un approccio «pragmatico». A ottobre finiranno gli stimoli straordinari del Qe, ovvero gli acquisti di asset. Dopodiché bisognerà valutare con grande attenzione la situazione. La Yellen ha analizzato dettagliatamente le relazioni tra la ripresa del mercato del lavoro e la politica monetaria. E non poteva essere altrimenti, visto che il tema del simposio dei banchieri centrali era Ripensare le dinamiche del mercato del lavoro. Nell’analisi sono risuonati gli echi degli studi pubblicati con il marito George Akerlof, premio Nobel per l’economia nel 2001. Il suo è un ragionamento complesso, che può essere così riassunto: salari troppo bassi non incentivano i disoccupati a tornare sul mercato del lavoro. Ecco perché ci sono le stranezze statistiche, come quelle di oggi, che vedono un basso tasso di disoccupazione e un alto numero di persone che non lavorano. Nel suo intervento la Yellen ha sottolineato che «a cinque anni dalla crisi il mercato del lavoro deve ancora recuperare pienamente» Mario Draghi «non c’è una ricetta semplice per una politica appropriata in questo contesto». Ma è evidente che la Yellen aspetterà di vedere un aumento dei salari, che per ora è stato irrisorio, prima di cominciare a considerare un aumento dei tassi d’interesse. Curiosamente, due giorni prima del simposio di Jackson Hole, le grandi banche d’investimento come Goldman Sachs e Jp Morgan hanno annunciato aumenti salariali del 20% per i loro junior banker a partire dall’anno prossimo. Bisogna vedere come accoglieranno eventuali aumenti del settore manifatturiero o dei servizi di basso livello. Di certo la Yellen li vedrebbe di buon occhio perché la aiuterebbero a cominciare l’opera di disintossicazione dell’economia americana, drogata da troppo tempo da politiche monetarie super lassiste. Una cosa è certa: il problema del lavoro è più che mai all’attenzione delle banche centrali e la ricetta di risolvere tutto tagliando i salari sta diventando fuori moda, Merkel e Weidmann permettendo.
Marcello Bussi, MilanoFinanza 23/8/2014