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 2014  agosto 23 Sabato calendario

USA E EUROPA COINVOLGANO SUBITO I SAUDITI

L’irrompere sulla scena mediorientale del fenomeno dello «Stato Islamico» sta producendo un impatto che va ben oltre il contesto politico-militare della situazione tanto irachena che siriana, coinvolgendo le grandi linee della politica estera americana ed europea.
La radicalità di questo impatto non dipende tanto dall’allucinata aspirazione dei neri combattenti dello Stato Islamico a ricomporre un Islam transnazionale, facendo coincidere la comunità dei fedeli, la umma, con un redivivo impero arabo. Dopo tutto, anche Bin Laden dichiarava di mirare alla riconquista di Al-Andalus. Piuttosto, quello che sta portando ad una revisione di precedenti strategie è l’impiego, nel perseguimento di quell’orizzonte utopico, di metodi di una inaudita brutalità, dall’attacco genocida agli yazidi alla pulizia etnica nei confronti dei cristiani. Le finalità possono essere teoriche ed irreali, ma i metodi sono concreti, visibili, tanto più in un tempo come il nostro, quando la rete trasmette fotografie e filmati – come nel caso della decapitazione del giornalista americano Foley.
Il primo e più importante effetto di questa provocazione all’intera comunità internazionale è una rinnovata convergenza fra le due rive dell’Atlantico.
Se la decisione di Bush junior di attaccare l’Iraq ed eliminare Saddam produsse a suo tempo fortissime divergenze nel campo occidentale, e addirittura una spaccatura fra «vecchia Europa» giustamente dubbiosa e «nuova Europa» allineata, oggi si sta invece riproducendo la coesione con cui americani ed europei condussero la Prima guerra del Golfo.
Ma la novità, quasi una svolta, si riferisce principalmente alla stessa politica di Washington, con un Obama che, seppure riluttante nei confronti di un ri-impegno militare in Iraq, non può oggi – con un’opinione pubblica sia americana che mondiale sotto choc per l’interminabile sequenza di orrori che ormai si possono seguire online – restare fermo sulla linea del non-intervento. Per quanto paradossale possa sembrare, non è escluso che, dopo le tragiche lezioni dell’interventismo unilateralista di Bush figlio e il disagio per le conseguenze delle esitazioni di Obama, l’America finisca per tornare ad affrontare la questione dell’intervento militare in un modo non molto diverso da quello di Bush padre. In altri termini, una politica realista, consapevole dei limiti dell’intervento, ma anche di quelli del non intervento. Non dobbiamo dimenticare che Bush senior sconfisse Saddam costringendolo a ritirarsi, con pesantissime perdite, dal Kuwait ma evitò, come invece lo esortavano a fare i falchi, di proseguire fino a Baghdad e al rovesciamento di Saddam, evidentemente consapevole delle conseguenze politiche che tale prospettiva, pur militarmente fattibile, avrebbe prodotto sia per l’Iraq che per la regione.
Tutto bene, quindi? Stati Uniti ed Europa uniti sulla base di una linea capace di combinare dovere etico (fermare le atrocità) e realismo politico, in quella attenta correlazione di fini e mezzi che dovrebbe sempre caratterizzare la politica estera, e anzi la politica in generale.
Una base su cui anche Paesi certo non militaristi, come l’Italia e la Germania, si stanno dimostrando disposti a fare la loro parte e non solo sul terreno diplomatico.
Sarebbe però azzardato prospettare uno sviluppo lineare degli eventi. Non riusciremo così facilmente a liberarci dai dilemmi che il dramma iracheno ci impone.
Ad esempio, come ha detto Emma Bonino in un’intervista di ieri a La Stampa, è certo giusto cercare di rafforzare con rifornimenti militari, come farà anche l’Italia, quei combattenti curdi, i peshmerga, che sono gli unici finora rivelatisi capaci di resistere all’offensiva dello Stato Islamico, ma faremmo bene a chiederci quali sarebbero le ripercussioni su scala regionale della proclamazione dell’indipendenza curda. Si parla molto della natura artificiale, di origine coloniale (l’accordo Sykes-Picot, in particolare) degli Stati della regione, ma – a parte il fatto che gli Stati-nazione non sono mai un fenomeno «naturale», ma solo politico – dovremmo chiederci responsabilmente cosa accadrebbe se dagli Stati artificiali dovessimo passare, come criterio di ripartizione politica, alle tribù e alle sette religiose reali. Viene in mente quello che disse una volta un politico musulmano della Malaysia, Mahatir Mohammad, quando, in risposta alle critiche occidentali al modo in cui i Paesi musulmani affrontavano questioni come democrazia e diritti umani, disse: «Ma dov’erano loro nell’anno 1.400 della loro epoca, l’era cristiana?». Davvero siamo disposti a contemplare l’assurda prospettiva che, per arrivare allo Stato-nazione e alla democrazia il Medio Oriente dovrà attendere 400 o 500 anni?
Il discorso dovrebbe essere diverso, realista senza essere fatalista e sostanzialmente reazionario come quello di Mahatir Mohammad. Ma perché anche il mondo arabo-islamico possa avviarsi verso coesistenza plurale, pace e benessere sarà indispensabile che non solo americani ed europei, ma anche i Paesi della regione – e in primo luogo Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo – facciano la loro parte, in questo caso astenendosi dal sostenere, come hanno fatto finora soprattutto per la loro ossessione anti-sciita e anti-iraniana, quei gruppi jihadisti che ormai non solo non controllano, ma che cominciano a costituire una minaccia anche per loro. Il «Califfo» al-Baghdadi non è – come si sostiene in Medio Oriente in un’ennesima allucinazione complottista – un attore israeliano addestrato dal Mossad, ma è un fenomeno arabo sunnita, e gli arabi sunniti non possono scaricarne tutta la responsabilità sull’Occidente.
Senza Riad, in particolare, Washington e Bruxelles non potranno andare molto lontano, ma è proprio per questo motivo che sembra venuto il momento di abbandonare reticenze e remore, e impostare con i sauditi un discorso molto più esplicito ed esigente.
Roberto Toscano, La Stampa 23/8/2014