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 2014  agosto 23 Sabato calendario

Il motivo principale, e forse più spesso equivocato, della guerra di Gaza sta proprio qui: l’obiettivo strategico dei razzi di Hamas non è quello di far cessare l’occupazione militare di Israele in Cisgiordania, bensì di prolungarla all’infinito

Il motivo principale, e forse più spesso equivocato, della guerra di Gaza sta proprio qui: l’obiettivo strategico dei razzi di Hamas non è quello di far cessare l’occupazione militare di Israele in Cisgiordania, bensì di prolungarla all’infinito. Sono in molti coloro i quali, dentro e fuori Israele, immaginano che Hamas punti principalmente a metter fine al cosiddetto assedio di Gaza. Questo è, forse, uno scopo di secondaria importanza. Perché sin dall’inizio, ricordiamolo, non vi è stato alcun assedio. Nel 2005 Israele ha evacuato Gaza ed era pronto a cedere gradualmente il controllo delle sue frontiere. Ma i razzi continuavano a piovere sulle città nel sud di Israele. Il controllo delle frontiere venne rafforzato in reazione al lancio di missili, non viceversa. Allora perché sparare su Israele se aveva già lasciato Gaza? Questo stato di cose comincia ad avere un senso solo quando ci rendiamo conto che la strategia di Hamas punta a impedire in tutti i modi la spartizione del territorio, perché proprio la spartizione è cruciale per la sopravvivenza del sionismo. Come ha giustamente sottolineato Thomas Friedman il 5 agosto dalle colonne del New York Times , Hamas sa perfettamente che il prolungarsi dell’occupazione della Cisgiordania condurrà inevitabilmente al graduale isolamento di Israele sulla scena mondiale, poiché nessuno Stato democratico è in grado di sopravvivere negando a un largo settore della popolazione locale i diritti politici e civili fondamentali. Ma non finisce qui. Alla lunga la mancata divisione del territorio rischia di far scomparire il sionismo nel binazionalismo. È per questo che i partiti di centro e di sinistra in Israele si sono convinti che la spartizione del territorio sia vitale agli interessi del Paese, anzi, l’unica strada percorribile per salvaguardare il sionismo da un progressivo disgregamento. Hamas è perfettamente al corrente di tutto questo. Israele siglò il progetto di spartizione negli accordi di Oslo del 1993. In quei giorni molti israeliani credevano che anche i palestinesi avessero accettato la soluzione dei due Stati e fossero pronti a metter fine a tutte le ostilità. Ma il 2000 segnò un brusco risveglio quando Yasser Arafat rifiutò la proposta di spartizione avanzata dal primo ministro israeliano Ehud Barak. Le conseguenze furono nefaste. Le vecchie architetture politiche di destra e sinistra rovinarono al suolo. La sinistra si convinse che Israele potesse assicurarsi la pace in cambio di concessioni territoriali e a questo scopo diede il suo appoggio ai colloqui di pace. La destra vi si oppose, sicura che se Israele avesse concesso la Cisgiordania, di lì a poco i palestinesi avrebbero reclamato Jaffa. All’epoca si parlò della teoria del salame: i palestinesi si sarebbero ripresi la terra di Israele una fetta alla volta. Ma entrambe le interpretazioni davano per scontato che la spartizione fosse a favore degli interessi palestinesi. La leadership palestinese non la pensava così, né allora né oggi. Un nuovo timore si profilò all’orizzonte: e se lo scopo dei palestinesi fosse stato quello di «liberare» l’intera Palestina, impadronendosi del salame tutto intero? Perché solo mantenendo intero il salame possono sperare di ottenere una maggioranza musulmana. Di colpo è apparso chiaro che la destra aveva ragione, nel presupporre che i palestinesi non avessero affatto rinunciato al sogno di una Grande Palestina e la sinistra aveva visto giustamente che la mancata spartizione del territorio avrebbe portato alla scomparsa del sionismo, per motivi puramente demografici. Per scongiurare questa ipotesi la maggioranza degli israeliani aveva appoggiato il ritiro unilaterale di Israele da Gaza. Dopo il ritiro di Israele, l’inarrestabile pioggia di razzi sembrò confermare questi timori. Gli abitanti di Gaza lanciavano i razzi dalla Striscia di Gaza, non più sotto occupazione militare israeliana. Per questo Israele proseguì con il piano di ritiro unilaterale. Ehud Olmert fu eletto primo ministro proprio per la sua promessa di ritirarsi anche dalla Cisgiordania. Ma poi scoppiò la seconda guerra del Libano, nel 2006. Gli attacchi missilistici di Hezbollah paralizzarono completamente un terzo del Paese e questa aggressione alterò radicalmente la prospettiva israeliana. Quella che fino ad allora era sembrata un’irritazione, limitata ad alcune cittadine lungo i confini a sud, di colpo apparve come una chiara mossa strategica. Gli avvertimenti di Netanyahu, che il ritiro dalla Cisgiordania avrebbe creato un nuovo Hamastan a soli 15 km dal cuore di Israele, di colpo si sono trasformati in una concreta minaccia. Come ha osservato giustamente Friedman, se lo scopo di Hamas è quello di prolungare all’infinito l’occupazione, e non di farla cessare, le sue tattiche hanno funzionato. E questo conferma il vecchio adagio sulla convergenza degli opposti. Gli estremisti, da una parte e dall’altra, vogliono impedire la spartizione a tutti i costi. Entrambi pensano di riuscire nel loro intento, senza concedere nulla in cambio alla controparte. Ma entrambi si sbagliano: alla lunga, se non si procederà alla divisione del territorio, non ci sarà né uno Stato palestinese né uno Stato ebraico ma soltanto una guerra civile per i prossimi cento anni. Per questo motivo tutti coloro che sono a favore di due Stati per due popoli devono appoggiare Israele in questo conflitto. Se Israele non dimostra a tutti di saper reagire alla minaccia dei razzi, non riuscirà mai a convincere i suoi cittadini che la spartizione è l’unica soluzione possibile. (Traduzione di Rita Baldassarre)