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 2014  agosto 21 Giovedì calendario

FINALMENTE NON HO PIÙ PAURA

[Intervista a Ornella Vanoni] –

Premessa: Ornella Vanoni e io tessiamo un’amicizia intermittente, ma felice, da alcuni lustri. Dunque facendosi vicina la data del suo ottantesimo compleanno si è deciso di festeggiare insieme l’evento con qualche giorno al mare, in Sardegna. Parlando e ricordando. Piangendo e ridendo. Correndo insomma dentro questa sua vita travolgente e tenera, dolorosa e fiammeggiante. Unica.
Siamo a Santa Margherita di Pula, vicino a Cagliari. Ornella esce dall’acqua sfidando l’onda. Sulla battigia le si avvicina una signorona in bikini damascato: «Ohilà, signora Vanoni, ma come li porta bene i suoi 80 anni». Lei risponde con un ruggito: «Anche lei porta bene i suoi 120 chili, signora».
Torna al suo pareo. Why, il suo cagnolino che (orecchie a parte) con quei ricci color fiamma pare un ritratto di Dante Gabriele Rossetti, le si appiccica addosso. «Dire a una donna un po’ in difficoltà con l’anagrafe che è giovanile o che li porta bene è come darle un cazzotto. Perché la donna che eri non c’è più. Sei solo un’età. Invece io sono stupefatta dei miei 80 anni».
Le s’illuminano gli occhi da lince che Hugo Pratt ha tanto celebrato. «La vecchiaia è anche meraviglia: è arrendersi alla leggerezza e poi diventa voglia di trasmettere amore agli altri. Anzi, guarda!». Oddio, Ornella scatta in piedi e raggiunge la bagnante (ormai quasi terrorizzata) e le stampa una bacio pentito sul guancione. La spiaggia degli amici ride. Nessuno come la Vanoni sa tenere il palcoscenico. Si apre sul décolleté il costume color ruggine: il corpo non l’ha ancora tradita. La lingua nemmeno: «E poi nessuno è esteta come me, ma il giovanilismo, questo nuovo comandamento fesso di cui l’Italia è prigioniera, rischia di impestare le intelligenze. Dovunque i cavalli di razza vengono difesi con le unghie e con i denti. Da noi, invece, li mandano al macello».
Ce l’hai forse con Matteo Renzi? «Renzi? Dicono tutti che è l’ultima speranza. Ma di speranza si può anche morire. E poi non parlo di politica italiana. Non la capisco più. Vorrei solo raccontare, ricordare quanta disperazione, miseria, sangue corre negli altri mondi. Se solo potessi...».
Adesso pretende di accollarmi il cagnolino: «Su, Why: vai da Uo-Uo, che ti placa». Uo-Uo sarei io. Da anni usiamo un codice inaccessibile agli altri. Ci guardano: «E chi se ne frega! Gli animali eccitano la mia parte infantile».
Insomma, a 80 anni si può essere ancora innamorati? «Anche a 100» risponde. «Forse devi mettere la sordina a certi desideri, cercare un po’ di complicità con le rughe, e dimenticare l’estasi di certe notti. Marguerite
Yourcenar diceva: “L’amore è una piccola volpe affamata davanti alla tua porta, tu falla subito entrare”. La verità è che certe comparse da materasso scompaiono, ma gli amori veri restano con te».
Arriva sulla spiaggia l’uomo delle granite coi capelli d’argento. Ispirazione. Allora, parlami della storia con Giorgio Strehler. «Era un genio assoluto. Un mito in tutto il mondo, che metteva in ginocchio Herbert von Karajan, Luchino Visconti, Vittorio De Sica. Era narciso e tiranno, ma anche un uomo fragile, innamorato dell’allieva diciottenne, cioè di me. Arrivavo da una buona famiglia (Bdernardo Caprotti e Bonomi erano capomastri di mio nonno), ma la mia infanzia e stata piena di dolore. Una scrofolosi tubercolare sul collo: bucata, bruciata dal nitrato d’argento, mi aveva lasciato una cicatrice atroce. Ma la vita ha più fantasia di te. Ecco il provino al Piccolo: un vestitino da far impennare anche gli imam sciiti. Mi chiamavano già “la negra”, ma anche “l’apoteosi del culo”. Pier Paolo Pasolini mi diceva: “Il tuo è l’unico sedere femminile a darmi i brividi”. E Strehler? «Be’, al Piccolo leggevo e imparavo tutto. Spiavo mostri come Tino Buazzelli e Sarah Ferrati. Respiravo le loro voci, rubavo i gesti. E lui? Mi mette a cantare ballate nell’intervallo dei Giacobini, sai quando gli spettatori tossiscono? Be’: alla faccia sua, è un trionfo. Allora l’amico Gino Negri dice che sarei adatta alle canzonette da cortile. “Ma no, facciamo le canzoni della mala” disse il maestro, magnanimo. Così si sono messi lì Dario Fo e Fiorenzo Carpi e sono nate Ma-mì e Le mantellate».
E Strehler? «Hai un gran talento, ma sei fragile, mi diceva. Aveva ragione. Ma sottovalutava la sfrontatezza e la disperazione dei timidi. Vedevo la morte sul palcoscenico, ma cantavo e recitavo. Piangevo di notte. Ma di giorno volavo e non ci sono mai state depressioni, ragni nella gola, tubercolosi capaci di fermarmi. Nemmeno mio figlio: Cristiano, adorato e cresciuto coi nonni. Perché dormivo nelle pensioni, nei treni. Non c’ero mai. Vedi, forse sono stata una cattiva mamma, ma oggi vorrei tanto essere una brava madre».
Sì, ma Strehler? «Alle prime del Piccolo si chiudeva nel bagno. Paolo Grassi mi chiamava con la sua “r” moscia: “Ovnella, vada a pvendere quel cvetino nel cesso e lo povti su”. Poi ha esagerato: cocaina, orge, notti insonni. E il suo credo, basato sul pensiero di Emil Cioran: “Se la vita può andar male, lo farà”. Ma una ragazza ha bisogno di luce. Così gli ho detto: “Va’ pure in vacanza con Valentina Cortese”. Poi, invece di fidanzarmi con Marlon Brando, ho deciso di sposarmi con Lucio Ardenzi».
Arriva l’ora di mangiare. Ci s’incammina nella pineta. Lei con sandali di perline, alla brasiliana. «Ho il Brasile sotto la pelle. Sai, Vinicius de Moraes diceva: “Toquinho lo chiamavano così perché ce l’aveva piccolo”. Non ho mai verificato, ma in realtà era perché Toquinho viene da “toquar”, strimpellare: non lasciava mai la sua chitarra. Vinicius e Antonio Carlos Jobim invece s’incontravanono in un ufficio. Una volta erano lì, insieme, e Jobim fa una scureggina...». Ma Ornella! «E come vuoi chiamarla: petelluccio? Be’, mentre ancora ne ridono vanno insieme al bar e di lì passa una sventola imperiale. È nata così La ragazza di Ipanema. Quella sì era un’epoca divina. Lavorare, ridere, mangiare, sempre insieme: come vasi comunicanti che si regalano talento, amore e fantasia».
Ornella tace. Forse adesso tutti quelli che hanno attraversato la sua vita camminano accanto a lei: Gino Paoli, Luigi Tenco, Domenico Modugno, l’adorato Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Fabrizio De Andrè («Era il più grande»), George Benson, Billy Evans, Tina Turner, Paolo Fresu. Tanti altri ancora, senza fine. Perché lei sola è entrata nel genio dei grandi cantautori, rimanendone gemella di gola senza rubargli l’anima.
D’improvviso mi mette la borsa in mano: «Devo fare pipì» sentenzia. Un viandante tapino ha la sfortuna di camminarle vicino: «Lei si volti subito dall’altra parte» gli urla. Corre un po’ in là, alza la gonna e in due minuti torna. «Allora? Da anni ho il flusso imperioso! Preferivi forse che me la facessi addosso?». No, per carità. Senza parole. Una certezza: una femmina così non c’è. Bambina selvaggia di 80 anni, ironica, struggente, capace di soffiare via il dolore della vita proteggendo la memoria della sua felicità. Una calamita dell’eros che oggi regala la sua sensualità alla natura, agli animali, al mare. È unica, Ornella.
Finalmente a casa. Stare a tavola con lei è come stare dalla psicologa delle verdure: un cicinin di cipolla, che fa bene al cuore; il basilico per i reni; i mirtilli per la cistite. Oso. In Una bellissima ragazza, il bel libro scritto con Giancarlo Dotto, tu parli della leggenda delle tue «rifatture». Aiuto! S’inalbera: «Hai aspettato il dolce per parlarne, eh? Allora: Gene Gnocchi dice che sono una delle donne più rifatte d’Italia e che paio un gatto. Lo deludo. Il vero rifacimento l’ho fatto una sola volta. La mia cicatrice sul collo dilagava. Parevo azzannata da un tyrannosaurus rex. Ma zero schifezze siliconiche. Caro Gene, quando rido e gli zigomi vanno su e giù è soltanto perché sono ingrassata. Oggi la Vanoni è più simile a un criceto che a un gatto».
Arriva la sera e siamo ancora in spiaggia con amici. Mentre aggrediamo un pecorino, mi racconta di come lei e Paoli, all’epoca, parevano due uccelli del malaugurio. Mina arrivava solare e colorata con la spider («Lei ha fatto della sua assenza una presenza mitica»), Gino e Ornella invece giravano sempre foderati di nero, molto rive gauche. «A lui avevano detto che io ero lesbica» racconta «a me che lui era un culattone». Quando poi hanno scoperto la verità, scoppiò l’incendio: «Se amare di più vuol dire soffrire da bestia, allora quello è Paoli. Piangevo sempre. Non solo era sposatissimo, ma era pure un traditore della razza peggiore. Mentiva: “Sai, poverina, era già con la lametta in mano”. E io a inghiottire rospi grandi come giraffe. La prima volta che lo sento suonare il pianoforte mi pare un orrore. Ma era Il cielo in una stanza.
Cantava male e suonava peggio, Gino, ma scriveva capolavori. Oggi è bravissimo. L’ho amato molto».
La platea intorno si agita. Vorrebbero una sua canzone, ma lei ha un filo di bronchite. Come sempre, comunque generosa, canta. Sceglie My funny Valentine. Adesso so perché. Le stelle diventano le luci della sua ribalta, il mare è la sua orchestra, la voce un tuffo in un brivido. «Oggi» dice «non m’importa più di cantare bene o male: canto e basta, libera e felice. Voglio donare la mia commozione a chi ascolta. Quando ho avuto il polipo in gola ho detto: sarà un’operazione fatale. Invece adesso è meglio di prima. Solo se la tua musica parte dal cuore, la voce vola oltre il corpo e diventa un destino infinito».
Qualcuno chiede come è possibile che a 80 anni si canti perfino meglio. Ornella sorride: «Perché non ho più paura».