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 2014  agosto 21 Giovedì calendario

GLI AFFETTI, LE GUERRE QUANDO DICEVA: «NESSUNA PASSIONE VALE IL DOLORE DI TUA MADRE»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — Voleva raccontare le vite degli altri e di sé aveva raccontato: «La sincera verità è che quando vedi qualcosa di davvero violento, ne sei coinvolto. Sentire che sei sopravvissuto, è una strana forma di energia, di forza, che vuoi tornare a sperimentare. Così sono naturalmente attratto dalla prima linea». «Mi interessa l’aspetto umano delle guerre, le esistenze deragliate. Ci sono il dramma, la brutalità estrema. Ma il tentativo è quello di scoprire chi sono queste persone». «Il problema di essere embedded con le truppe americane è che resti sempre schermato. Il blindato, la base, le armi dei soldati ti separano dalla popolazione. Conosco gli iracheni? Gli afghani? Al massimo posso dire di aver incontrato un afghano che faceva il traduttore per l’esercito». «Dobbiamo continuare a parlare del conflitto in Siria. Se non andiamo noi, chi lo farà? Se non diamo una voce alla gente là dentro, non ci penserà nessun altro». «Il giornalismo è giornalismo. Se mi dicessero di seguire il consiglio comunale di un villaggio nel New Hampshire o cambiare mestiere, andrei avanti. Mi piace scrivere e trovare notizie».
Nel giugno del 2011 James Foley era tornato da ospite d’onore nell’aula principale dell’università — la Medill School of Journalism — dove si era iscritto a 35 anni per ispirazione più che per ottenere una seconda laurea. Agli studenti aveva spiegato quella scelta e le altre più difficili, le decisioni prese sotto il fuoco in Libia pochi mesi prima e durante i 45 giorni di prigionia nelle carceri dei miliziani fedeli a Muammar Gheddafi. «Quando ti esponi al rischio la prima volta, quando quel colpo cade troppo vicino, devi fermarti e capire che è andata bene solo perché sei stato fortunato. Non importa quanto tu sia avventuroso, non importa quanto sia importante l’etica del lavoro: niente vale la tua vita, il dolore che daresti a tua madre, a tuo padre, ai tuoi fratelli».
La famiglia ieri ha pubblicato un messaggio sulla pagina Facebook che era stata creata perché nessuno si dimenticasse di questo ragazzo americano rapito in Siria il 22 novembre del 2012. «Non siamo mai stati così fieri di nostro figlio Jim» scrive la madre Diane. «Ha perso la vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano. Lo ringraziamo per tutta la gioia che ci ha dato. Era un figlio, un fratello, un giornalista e una persona straordinari». I genitori hanno anche parlato davanti alla casa nel New Hampshire: «Era coraggioso, senza paura, il meglio dell’America. Non avrebbe voluto che nutrissimo odio, aveva un grande cuore. Il giornalismo era la sua passione, non era pazzo, era motivato. Perché i pompieri affrontano gli incendi?».
Gli amici hanno lasciato su Internet i loro ricordi, gli incontri all’hotel Liwan in Turchia, i whiskey e le birre prima di attraversare la frontiera verso la Siria. Foley aveva il fisico di un atleta (l’allievo di una scuola dove ha insegnato, periferia disagiata, lo ricorda anche allenatore della squadra di basket) ma l’attitudine morbida di un personaggio del Grande Lebowski, compreso l’istinto di chiamare tutti da subito «bro» o «dude» (fratello, amico). La fratellanza era diventata quella dei reporter che come lui hanno scelto di raccontare le guerre. La famiglia restava la preoccupazione più grande «se fosse stato rapito» dice Clare Morgana Gillis che era stata portata via dai miliziani di Gheddafi assieme a James. In quell’agguato era morto il fotografo sudafricano Anton Hammerl, Foley si era impegnato a organizzare le mostre con le sue immagini per raccogliere fondi da donare alla vedova e ai tre figli. «Chiedeva sempre cibo per tutti, ci ha aiutati durante la prigionia». Anche il francese Didier François è stato sequestrato dai fondamentalisti in Siria, sette mesi dopo Foley. Per un periodo sono stati tenuti dallo stesso gruppo. «Era straordinario, non si è mai totalmente sottomesso ai carcerieri. Solido». Spiega di non averne potuto parlare prima perché i terroristi avevano minacciato ritorsioni contro gli altri ostaggi: François giornalista di Radio Europe 1 è stato rapito assieme al fotografo Edouard Elias dalle parti di Aleppo ed è stato liberato lo scorso aprile (secondo la stampa francese il governo avrebbe pagato un riscatto).